martedì 27 dicembre 2011

Sogno n° 8


Sono alla guida di un autobus di linea a Roma. Attraverso una via del centro, stretta, con tante auto parcheggiate in doppia fila. La manovra per passare è difficilissima. Non c’è nemmeno un centimetro per lato. Sento tutti gli occhi dei passeggeri puntati su di me, ma io non mi perdo d’animo.
Scendo giusto per tirare dentro lo specchietto laterale e poi con abilità da autista consumato faccio sfilare il bus al pelo tra le macchine posteggiate alla meno peggio a destra e a sinistra, sotto lo sguardo ammirato di tutti.
Poco più avanti un barbone mi blocca il passaggio: sta dormendo in terra e ha lasciato una bella cacata davanti a sé, nel bel mezzo della strada. Le persone nell’autobus aspettano di vedere cosa farò stavolta. Apro le portiere, scendo e con le mie mani nude raccolgo la sua merda e gliela metto davanti, senza sporcarmi, senza scompormi e senza svegliarlo. Eliminato quel ultimo, piccolo ostacolo che considero un affronto alla decenza più che altro, un insulto personale più che un reale impedimento, risalgo tutto contento alla guida del mio bus. E me ne vado.

Davide (IX parte)


Quando Max e Davide rientrarono a casa, Silvia s’era docciata, vestita e truccata, coprendo il segno delle cinque dita con una generosa spennellata di terra di Siena che la faceva apparire ancora più abbronzata e faceva risaltare maggiormente i suoi begli occhi azzurri. Davide ne fu visibilmente contento. Era un secolo che non vedeva sua mamma così bella ed era orgoglioso che l’avesse fatto per lui. Aveva sempre pensato che fosse una sfiga incredibile compiere gli anni ad agosto, quando tutti i suoi amici erano in vacanza e a Milano non c’era più nessuno. Ma quel compleanno era diverso. L’avrebbero festeggiato tutti e quattro al lago. Max aveva organizzato tutto.
Davide non poté credere ai suoi occhi quando vide il laser da competizione che gli avevano regalato. Doveva provarlo subito. Ma Silvia fu irremovibile. Si era fatta un mazzo così per preparare i suoi tramezzini speciali al pollo e maionese e tutto il resto. E poi Davide doveva spegnere le candeline che sennò portava male. A diciott’anni poi! Fu uno spasso vederlo trangugiare il cibo del picnic e sorbirsi il rituale degli auguri, con tanto di foto in posa e tirate d’orecchie, come quando era bambino. Alla fine per poter spegnere le candeline –lui e non il vento del lago di Como- dovettero coprirsi tutti e quattro con il plaid che Silvia aveva steso per fare il pic-nic. Anche perché era l’unico modo di vedere la fiamma delle candeline accese sotto quel solleone.
“Beh? Non sei curioso di sapere cosa ti ha regalato lo zio d’America?” disse a un tratto Silvia. Davide lo guardò dritto negli occhi con la stessa faccia a punto interrogativo che aveva ereditato da sua mamma. Non si aspettava proprio niente da quel uomo semisconosciuto. Non ricordava neppure il suo nome o forse non l’aveva mai saputo.
“Tieni. Non ho nemmeno avuto il tempo d’incartarlo” si scusò l’amico della mamma e gli allungò una busta. Dentro c’era un biglietto aereo e una mappa degli USA con un cerchio rosso intorno a Provincetown e un indirizzo scritto sopra a penna.
Davide lo ringraziò educatamente ma l’America per lui era così lontana, nello spazio e nel tempo. Ora voleva solo andare sulla sua barca.
Silvia e l’amico lo osservarono veleggiare al centro del lago, dove poteva divertirsi come un matto ad appendersi fuoribordo con tutto il peso del corpo per controbilanciare la forza del vento che gonfiava il trapezio. Max lo seguiva dalla riva col binocolo. Era lui che l’aveva iniziato a quello sport e andava molto fiero del suo piccolo campione e del suo grande lago. Alle sette il sole era calato insieme al vento e finalmente si vide Davide tornare verso riva. Silvia e Max si tuffarono subito e lo raggiunsero all’imbarcazione a nuoto, ma l’amico della mamma restò lì. L’acqua era calda, gli giurava Davide, ma non riusciva a convincerlo. Lo zio d’America se ne stava lì come una lucertola al sole, con i piedi conficcati nella sabbia.
Ma Silvia sapeva cosa fare. Cominciò a prenderlo in giro come ai tempi della scuola e quando lo chiamò femminella lui si tuffò per fargliela pagare.
Silvia era una nuotatrice professionista da giovane e non le sarebbe stato difficile seminarlo, ma fece finta di aver perso l’allenamento. Quando l’amico la raggiunse e la spinse sott’acqua un paio di volte, Silvia lo lasciò fare senza opporre resistenza. Davide rimase ad osservarli per qualche minuto da lontano sbattendo le ciglia lunghe e nere per capire se stavano giocando o se invece facevano sul serio. Come tutti i giovani maschi era iperprotettivo con la madre. Ma quando la sentì ridere si voltò dall’altra parte e in due o tre bracciate guadagnò la riva. Gli altri lo seguirono dopo una decina di minuti. Cominciava a fare freddino e si stesero ad asciugarsi all’ultimo tiepido sole. Nessuno disse più una parola per un po’. Fu Davide a rompere il silenzio.
“Bello il tuo tatuaggio. Ma perché è un’ala sola?”
Silvia era distesa a pancia in giù per prendere il sole sulla schiena. Fece giusto in tempo ad aprire gli occhi prima che l’amico sprofondasse i piedi fino alla caviglia nella sabbia. Fu allora che la vide anche lei per la prima volta. Sul malleolo del piede sinistro dell’amico c’era un’ala tatuata. Una piccola ala come quella di Sub Mariner. Silvia alzò un sopracciglio e fissò l’amico. Aveva gli occhi sgranati e la bocca semiaperta come quel giorno sull’altare. Annaspava alla disperata ricerca del suo aiuto e della sua approvazione. Davide stava aspettando serio. I due amici si guardarono. Sorrisero. E alla fine risposero con il linguaggio dei pesci.

lunedì 26 dicembre 2011

Davide (VIII parte)


Silvia non andò a prenderlo neppure all’aeroporto. Troppo caldo, aveva detto. Certo c’era una bella differenza dall’ultima volta che era stato a Milano. Il tassista attraversò la città semideserta nella calura d’agosto con i finestrini oscurati e l’aria condizionata a palla e lo scaricò in Via Stradella 4, senza dire una parola per tutto il viaggio.
Stanotte la moglie non gliel’avrà data, pensò il ragazzo; pagò e scese senza salutare.
Silvia accolse l’ex amico in sottoveste nell’ampio soggiorno dell’appartamento dei suoi genitori. La casa era completamente cambiata, ma il ragazzo riconobbe il tavolo in cucina dove si sedevano a fare i compiti al liceo. Silvia nel frattempo aveva incontrato Max, un bel ragazzo dagli occhi buoni che disegnava stampe per un’azienda di tessuti sul lago di Como e che Davide chiamava papà.
Il bambino era diventato un uomo: alto, biondo e con gli occhi azzurri come la madre. Aveva la spensieratezza e l’atteggiamento dinoccolato tipico dei pargoli benestanti della sua età, ma senza la spocchia e la malizia dei suoi coetanei americani.  Non sembrava aver sofferto più di tanto per la sua infanzia travagliata e la tragica morte dei nonni che per lui erano stati dei veri e propri genitori, visto che Silvia era sempre al lavoro e aveva trovato una relativa stabilità affettiva solo con il suo attuale compagno. Il suo sguardo era diretto e limpido. La sua stretta di mano decisa ma accogliente. Il suo tono di voce suadente ma virile. Il ragazzo fu presentato a Davide come un vecchio amico della mamma. E come dargli torto, dato che l’aveva visto sì e no un paio di volte, escluso quando era in fasce? Dopo i convenevoli di rito Max e Davide uscirono con una scusa e lasciarono Silvia e l’amico in casa da soli.
“Perché?” gli disse Silvia senza tergiversare, appena sentì chiudere la porta.
La mammità, l’età e tutto il resto non l’avevano cambiata neanche un po’. Aveva conservato intatti i modi diretti e il piglio deciso della sua giovinezza. Il suo sguardo freddo, occhi negli occhi, non lasciava via di scampo. Aveva sempre odiato le bugie e adesso voleva la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Il ragazzo lo sapeva ma fece finta di non aver sentito per prendere tempo.
“Perché, cosa?”
“Perché, Andrea? Perché un nome falso? Perché dare all’uomo della tua vita, a tuo marito o come cazzo vi chiamate tra di voi, il tuo nome di battaglia? Lo stesso nome falso che riservavi ai tuoi incontri occasionali. Quelli da una scopata e via come dicevi tu. Quelli che non avresti più rivisto, che comunque non se lo meritavano di conoscere il vero te stesso. Bla bla bla… La tua bella anima candida! Bella predica davvero. E da che pulpito!”
“Tu non capisci”.
“Capisco benissimo invece. Quello che non capisco è perché l’hai fatto proprio a me.
Come se non lo sapessi quanto detesto le bugie. E per giunta davanti all’altare! Che patetica messinscena”.
“Giusto, scusami. Perché solo voi potete sposarvi, vero? Noi no, maledetti sodomiti che non siamo altri!”
“Cos’è, fai la vittima? Guarda che con me non attacca. Per me chiunque può sposarsi con chi cazzo gli pare, figurati! Bastasse un pezzo di carta ad assicurare il successo di un’unione… E comunque perché scimmiottare il matrimonio etero? Come se ormai non fosse ampiamente dimostrato dai fatti che è la più grande cazzata di tutti i tempi. Altro che sacramento! Sposarsi… per giunta con il doppio rito: ebraico e cattolico? Come se uno solo non bastasse. Quanto zelo! Degno di miglior causa, davvero. Congratulazioni vivissime, Andrea Coiro! Vuoi tu prendere in sposo il qui presente Andrea, Luca, Giovanni o come cavolo ti chiami… nella buona e nella cattiva sorte?”
“Piantala!”
“Ed amarlo e rispettarlo finché morte non vi separi? Bel rispetto davvero!”
“Non infierire ti prego…”
“’Sì, sì, lo giuro davanti a Dio. Per sempre!” continuò Silvia, scimmiottando la risposta del ragazzo all’altare con la voce emozionata e l’atteggiamento sinceramente contrito di un chierichetto.
”Se esistesse un Dio, su quel altare avrebbe dovuto fulminarti con lo sguardo. Lui, non io!”
“Lascia che ti spieghi, almeno…”
Silvia era fuori di sé dalla rabbia. Non voleva sentire ragioni e continuava a urlargli in faccia le sue colpe, rossa in viso come un’ossessa.
“Per sempre. Per sempre bugiardo, ecco cosa sei! Me l’avevi già fatto una volta, ricordi? Con quel conte del cazzo e il suo Nicola di Bari... E io ti avevo perdonato. Che stupida sono stata a fidarmi ancora di te. Di questa bella faccia d’angelo, dei tuoi piagnistei, della tua tanto sbandierata sensibilità, della tua pesante verità. Del tuo insostenibile segreto. Me lo porto ancora sulle spalle quel fardello, sai? La tua vita, la tua malattia, la tua disperazione e la tua speranza. L’ho nutrita io quella speranza, per tutto questo tempo. Come una serpe in seno l’ho nutrita. Col mio silenzio. Con la mia  complicità. Ma adesso è arrivato il tempo di dire la verità. Ti ho fatto venire qua per questo. Per vedere se sarai ancora capace di mentire anche di fronte ai 18 anni di mio figlio. Voglio proprio vedere che insegnamento gli darà lo zio d’America per il suo futuro. Vivere nella verità e nella luce come andavi pontificando ai tempi del liceo, o accontentarsi della menzogna quando ti fa comodo? Rispondi!”
“E’ inutile. Tu non puoi capire come ci si sente a essere…”
“Sieropositivo? Dillo. Che male c’è? E’ una malattia come un’altra, anzi oggi è anche meno peggio di tante altre. Una malattia, mica una colpa, l’hai detto sempre tu. Cos’è, ora ti vergogni? E di che cosa? Della malattia, di Luca o di te stesso?”
“Non osare nemmeno pronunciare quel nome!” gridò il ragazzo fuori di sé dalla rabbia.
Silvia sgranò gli occhi e rimase impietrita quando le arrivò il ceffone. Sentì la guancia bruciare e immaginò il segno lasciato dalle cinque dita del ragazzo. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Un sentimento nuovo, profondo e sconosciuto si fece strada faticosamente ma inesorabilmente dentro di lei. Era odio quello? Silvia non osò pronunciare il suo nome; lo scacciò via dalla sua mente come una maledizione, come un veleno mortale. Perché la vita le aveva insegnato che l’odio non perdona, ma avvelena l’anima di chi lo prova fino ad ucciderlo e la vita umana è così fragile, così precaria e così breve. E l’odio è pur sempre un sentimento, come l’amore. Uguale e contrario. Il ragazzo sostenne lo sguardo di Silvia con la forza di quel amore per un tempo che sembrò infinito finché i due vecchi amici si strinsero piangendo in un abbraccio, l’espressione più sincera del perdono.

sabato 24 dicembre 2011

Davide (VII parte)

Dopo il matrimonio i due non si videro né si parlarono più per otto anni. Silvia non partecipò neppure ai festeggiamenti. Tornò subito a Boston sull’auto del sacerdote e ripartì immediatamente per Milano con la scusa che Davide si era sentito male. Dopo otto anni e dieci squilli di cellulare, Andrew si decise a rispondere al telefonino del ragazzo. Non era nel suo stile impicciarsi degli affari altrui e come tutti gli americani aveva un sacro rispetto della privacy, ma quando è troppo è troppo! Stava riposando e quel telefonino non la smetteva di suonare. Era Silvia: invitava entrambi in Italia per il diciottesimo compleanno di Davide. Andrew era corso a cercare il ragazzo per comunicargli la bella notizia, sorpreso ed eccitato all’idea che i due amici potessero rincontrarsi dopo tutto quel tempo. Ma anche timoroso che Andrea –aveva sempre considerato una banale coincidenza che il ragazzo avesse il suo stesso nome- potesse opporre il suo veto, come aveva fatto ogni volta che si era presentata l’occasione di fare un viaggetto in Italia, fino ad allora. Aveva lasciato il cellulare in casa ed era andato in giardino dalle sue peonie.

Lo trovò lì come al solito, inginocchiato a terra con un cappello di paglia in testa come la signore delle camelie e gli comunicò la bella notizia.
Dopo il matrimonio i due si erano trasferiti definitivamente a Provincetown, dove da qualche anno era stato installato il primo ripetitore telefonico, con grande dispiacere di Andrew e di pochi altri isolani ricchi e snob che come lui consideravano quell’isola un’oasi privatissima per il loro esclusivo piacere e riposo.
Per questo Andrew aveva venduto l’appartamento di New York con i mattoncini rossi e la pretenziosa villa a Fairfield. Con il ricavato avevano ristrutturato e ampliato la palafitta e costruito un bel giardino sul retro che era il regno indisturbato del ragazzo. Andrew aveva comprato anche un ristorantino al porto che aveva però dato subito in gestione alla coppia di amiche lesbiche. Adesso per la maggior parte del tempo se ne stava in costume a prendere il sole in spiaggia e faceva lunghe nuotate al largo, apparentemente indifferente alla temperatura dell’acqua che il ragazzo definiva “artica” rispetto a quella del Mediterraneo a cui era abituato lui.
Per fortuna quella volta il ragazzo apprese la notizia con gioia e richiamò subito Silvia dal suo cellulare. Andrew ci si mise d’impegno a capire cosa si dicevano ma i due amici parlavano così fitto che rinunciò e dopo un po’ se ne tornò al suo mare e al suo sole.
“Ma mi spieghi perché cazzo non ci posso venire se mi ha invitato lei personalmente!” tentò di protestare Andrew mentre il ragazzo faceva la valigia.
“Eppoi voglio conoscere Davide. Me ne parli sempre, scusa!”
“Preferisco andarci da solo. Sono otto anni che non ci vediamo e non ci parliamo e non voglio che lei si senta in imbarazzo quando dovremo chiarire la cosa.”
“Ah, è così allora? Sono otto anni che ti chiedo che cazzo è successo tra di voi e continui a dirmi niente. E adesso c’è qualcosa di così importante da chiarire che devi farlo da solo. Ma si può sapere cosa hai in quella testa dura del cazzo?”
“Niente. Non è successo un cazzo di niente. O almeno io non lo so. Ma se c’è qualcosa da chiarire tra noi voglio che ne parliamo tranquillamente solo lei ed io, senza l’assillo di dover spiegare a te, tradurre eccetera. Capisci? Amore dài, non fare così. Tu sei sempre stato quello che sdrammatizza le cose. Non fare il droppie della situazione adesso!”
“Non usare quella parola. Lo sai che la odio. Non sono mica il tuo ex! E togliti dal mio sole. Tanto con voi italiani è inutile parlare! Come la giri e la volti, c’avete sempre ragione voi. Fanculo!”
Il ragazzo gli schioccò un bel bacio sulle labbra e se ne andò, lasciando il compagno ai suoi pensieri stereotipi e un po’ razzisti sugli italiani tutta mafia, pizza e mandolino e ringraziando quel sole e quel mare che avrebbero fatto compagnia rendendogli meno pesante la sua assenza. In fondo si trattava solo di una settimana.

Davide (VI parte)


Andrew sapeva che l’unico modo di fare restare il ragazzo in America era sposarlo. Le nozze furono fissate per l’estate successiva, il giorno del loro secondo anniversario.  Silvia fu l’unica invitata dall’Italia. I genitori del ragazzo erano morti, suo fratello non aveva mai davvero accettato la sua omosessualità e comunque lui non glielo disse. Ad Andrew non era rimasto che il fratello, ma i due non si parlavano da anni. Fu una cerimonia molto intima e con pochissimi invitati, tutti rigorosamente scalzi e vestiti di bianco per volere di Andrew, tranne gli sposi che alla fine dovevano rompere il bicchiere come prescritto dal rito ebraico. Il ragazzo aveva scelto uno smoking bianco della collezione da crociera di D&G, mentre per Andrew non c’era altro che Armani. Silvia accompagnò il ragazzo all’altare in un bellissimo abito di sua creazione, i capelli raccolti in un elegante chignon e un foulard di seta trasparente al collo, che dovette legarsi in vita perché non la finiva di svolazzare di qua e di là per tutto il tempo. Fu la prima volta che il ragazzo notò la rosa tatuata che partiva da un piede di Silvia e finiva sull’altro. E ne rimase molto colpito. Andrew sbarcò da una barchetta a remi spinta dalla proprietaria lesbica della sua galleria d’arte preferita e fece il suo ingresso sulla spiaggia sotto una pioggia di applausi e petali di rose bianche. 

Quella fu l’unica volta in cui abbandonò l’understatement del suo stile per concedersi un tocco di glam che nessuno avrebbe più dimenticato. Primo fra tutti il ragazzo che era stato tenuto volutamente allo scuro di tutto dal suo futuro consorte. Andrew pronunciò la formula di rito alla presenza del rabbino e dei testimoni e alla fine della cerimonia ruppe il bicchiere al primo colpo sotto il tacco dei suoi mocassini bianchi di Prada. A seguire ci fu il rito cattolico. Il ragazzo si era opposto in tutti i modi ma Andrew ci teneva tantissimo e non volle sentire ragioni. Il rabbino cedette il posto a un sacerdote cattolico fatto venire apposta da Boston. Andrew aveva imparato la sua parte a memoria e la recitò in un perfetto italiano che impressionò molto Silvia. Poi fu la volta del ragazzo. A differenza di Andrew appariva visibilmente teso ed emozionato. Non si sposava solo per la green-card. Era il sogno della sua vita che si realizzava. Il suo sogno d’amore. Proprio lì a Provincetown, la loro terra promessa, sotto le finestre della loro palafitta, su quella stessa spiaggia che li aveva visti abbracciati tante volte ad amoreggiare fino all’alba.

Il sacerdote pronunciò la formula in perfetto italiano: “Vuoi tu Andrew Lush prendere come tuo legittimo sposo il qui presente Andrea Coiro per amarlo ed onorarlo nella buona e nella cattiva sorte finché morte non vi separi?”
Silvia trasalì vedendo lo sguardo terrorizzato negli occhi del ragazzo che non si decideva a pronunciare il fatidico sì. Sollevò un sopracciglio e attese in silenzio.
“Sì, lo voglio” lo sentì dire.

venerdì 23 dicembre 2011

Davide (V parte)


Luca aveva scoperto la sua identità ombra e in un ultimo, disperato tentativo, nell’allucinazione chiaroveggente della malattia e della sua fine imminente, aveva voluto affidare la sua verità a quella coperta, usando parole che solo il ragazzo avrebbe capito. E per fortuna nessun altro.
Il ragazzo pianse lungamente con dolcezza, senza più rancore, per la prima volta dopo tutto quel tempo. Silvia vide una goccia densa solcare il suo profilo. Se quella lacrima avesse potuto parlare, le avrebbe detto che l’amico non stava piangendo per Luca ma per se stesso.
Passarono due settimane prima che il ragazzo ripartisse per New York. Ne approfittò per salutare un po’ di amici e fare un salto a Roma per regolare alcune questioni amministrative con l’inquilino a cui aveva affittato la casa di Trastevere.

Andrew gli aveva detto che l’agenzia aveva chiamato un paio di volte per sapere quando aveva intenzione di tornare, ma il ragazzo non dette peso alla cosa come avrebbe dovuto. Bastarono quelle due settimane perché in agenzia si accorgessero di poter fare a meno di lui. Quando tornò, trovò una bella lettera di licenziamento sulla sua ex scrivania, insieme a un assegno con tutti i soldi che gli spettavano, detratti naturalmente quei 14 giorni. Non ci volle molto a mettere le sue cose dentro uno scatolone e andarsene senza salutare, anche perché non aveva amici lì dentro, soprattutto nel reparto creativo.
Ne parlò con Andrew senza aspettarsi una risposta quella sera stessa, a letto. Andrew gli spiegò che gli americani avevano al massimo una settimana di ferie l’anno e che a New York quelle erano cose all’ordine del giorno. Poi si alzò, andò in cucina e tornò a letto con due flute colmi di champagne per brindare alla loro nuova vita da disoccupati. Era tipico di Andrew e il ragazzo in cuor suo lo benedisse per quella sua innata capacità di sdrammatizzare tutto. Mentre sorseggiava il suo champagne il ragazzo sentì uno strano tintinnio all’interno del bicchiere. Guardandolo in controluce vide qualcosa luccicare tra le bollicine che salivano dal fondo. Era un anello di fidanzamento con diamante.

venerdì 7 ottobre 2011

Davide (IV parte)

Silvia seguì con lo sguardo la mano del ragazzo mentre accarezzava le lettere della poesia lentamente, una dopo l’altra, come se fosse stata scritta in braille.

S’intitolava “Il ragazzo che volava di profilo.”

C’era un ragazzo
che per le nuvole ci andava pazzo.
Le amava così tanto
da farsi un tatuaggio.
Ma una nuvola intera non ci stava.
Allora il ragazzo si dipinse un’ala
come quella di Mercurio, il dio corridore
sul piede sinistro, il lato del cuore.
A guardarlo da quel lato
si vedeva che era alato.
Ma quel segreto non fu mai svelato.
Nemmeno quando il ragazzo andava in spiaggia.
Perché conficcava i piedi nella sabbia.
I pesci del mare lo sapevano
che poteva volare.
Ma non lo andarono certo a raccontare.

Sulla targhetta di fianco alla coperta c’era scritto: Luca Pierangeli 8-8-1968, 9-5-2000.
Era proprio il suo Luca. Rileggendo il titolo della poesia e i riferimenti cos’ chiari alla sua vita d’un tratto il ragazzo capì che solo Luca l’aveva compreso davvero. Solo Luca gli aveva “grattato l’anima” come diceva sempre lui alla fine dei loro interminabili discorsi. Solo lui l’aveva stanato. Al di là dei blasoni, dei nomi falsi e delle beate illusioni dell’amore. 
Al di là di tutte le cazzate sulla madre e sul padre, della sua visione eroica della vita, della tanto millantata religione dell’uomo a cui diceva di voler ispirare tutta la sua vita. Oltre le apparenze e le parole inutili dietro cui aveva sempre nascosto a sé e agli altri la propria verità. Altro che ideologie del cazzo, visioni oniriche, ossessione del sesso. Le parole stanno a zero. La verità stava là davanti a lui, anzi al suo fianco. Nel suo profilo riflesso nella vetrata del ristorante che dava sul parco. Il suo profilo con il naso camuso che non a caso il ragazzo odiava tanto. D’un tratto gli apparve chiaro che tutta la sua vita, tutta la sua fottutissima esistenza era solo una farsa. Una rappresentazione teatrale di se stesso. Un cinema. Un’ombra cinese proiettata sul muro della apparenze con cui amava mostrasi agli altri. Il ragazzo si rese conto in un istante che non aveva mai affrontato la vita di petto come andava predicando con la sicumera tipica di chi non ha nulla da nascondere: né difetti, né malattie, né perversioni. Tanto ogni cosa è giustificabile in nome della sincerità. “Sante bugie” diceva sua mamma e il ragazzo l’aveva presa in parola. Senza neanche accorgersene in tutti quegli anni non aveva fatto altro che mentire, sapendo di mentire. Invece di affrontare la vita di petto si era accontentato di andare di profilo. Volava con la fantasia, ma sempre coi piedi ben piantati per terra. Anzi sottoterra, nelle profondità oscure e impenetrabili delle sue bassezze a cui negava l’accesso a tutti, a volte perfino a se stesso.

mercoledì 3 agosto 2011

Davide (III parte)

“Inutile sottoporlo a quello strazio” disse.
Era troppo piccolo per capire. Naturalmente il ragazzo era d’accordo. Lasciò passare qualche giorno prima di portare Davide a giocare a palle di neve nel parco. Scelsero il parco delle Basiliche, soprannominato il parco dei bambini da quando ci avevano messo un grande spiazzo recintato con i giochi. In mezzo alla neve si vedevano le due altalene, due cavallucci a dondolo e il castello di legno con lo scivolo e il ponticello mezzo annegato nella neve.
Ma a parte una coppietta di quindicenni che si sbaciucchiava sull’altalena, nel recinto non c’era nessuno. I bambini e i loro genitori erano tutti in mezzo al parco, dove ipoteticamente ci sarebbe dovuta essere la grande distesa verde del prato, ora completamente bianco. Giocavano a prendersi a palle di neve o facevano grandi pupazzi con castagne selvatiche per occhi e un rametto o una carota al posto del naso.
Per fortuna Davide era un bambino allegro ed estroverso, e corse subito verso un gruppo di coetanei per mettersi a giocare insieme a loro, lasciando Silvia e il ragazzo indietro a passeggiare nella neve. Nessuno dei due osò rompere il silenzio ovattato di quel pomeriggio, ma furono entrambi grati al piccolo di non averli costretti oltre a fingere d’essere allegri per non fare intristire lui.
Era il primo dicembre, giornata nazionale della lotta all’AIDS e il prato intorno alla Basilica di S. Lorenzo, proprio dall’altro lato della strada che divideva in due il parco, era tappezzato delle coperte del ricordo per la raccolta fondi dell’ANLAIDS. Erano trapunte e coperte cucite a mano da amici, parenti e dagli stessi ammalati con tessuti e disegni dai colori allegri che non riuscivano però a nascondere la sofferenza o ad esorcizzare la disperazione che quella malattia si portava inevitabilmente con sé. Il dolore era palpabile e le allegre grida dei bambini, solo poche decine di metri più in là, sembravano incredibilmente lontane. Silvia e il ragazzo si strinsero istintivamente l’una all’altro con la scusa del freddo. A un tratto il ragazzo si fermò davanti a una coperta come obbedendo a un irresistibile richiamo. “Luca è morto”. Possibile che la sua vecchia voce interiore si facesse risentire proprio ora, dopo tanti anni di silenzio? La coperta aveva una cornice patchwork a quadrati colorati. Al centro della coperta bianca c’era una poesia scritta a mano con un delicato colore verde salvia su fondo bianco.

martedì 31 maggio 2011

Davide (II parte)


La spia rossa della segreteria di casa indicava che c’era un messaggio in attesa. Era Silvia. Singhiozzava. Aveva provato sul suo maledetto cellulare ma a Provincetown non c’era campo. I suoi erano su quel aereo. Erano precipitati all’una di notte sopra il Mare del Nord, di ritorno dal loro viaggio a Stoccolma. Il pilota aveva tentato l’ammaraggio ma un’ala aveva colpito l’acqua. L’aereo s’era spezzato in due ed era esploso immediatamente.
Il ragazzo sbiancò. Singhiozzava così tanto da non riuscire a spiegare ad Andrew cosa fosse successo. Gli fece segno di riavvolgere il nastro e riascoltare il messaggio da sé.
Andrew ormai conosceva abbastanza bene l’italiano e non gli ci volle molto per collegare le parole di Silvia alla notizia ascoltata in macchina e al racconto del ragazzo.
Il ragazzo fece un veloce calcolo mentale: l’una di notte in Italia erano le cinque del pomeriggio a New York. L’aereo era caduto esattamente nello stesso momento in cui aveva fatto il sogno dell’incidente. Ma non lo disse a Silvia quando le telefonò per avvisarla che avrebbe preso il primo volo per Milano.
Trovò la città coperta da una spessa coltre bianca. Nessuno ricordava una nevicata così da almeno 30 anni. Tanto meno lui. In una sola notte erano venuti giù 35 centimetri di neve. Le strade erano bloccate. Le scuole chiuse. Solo l’intervento dei camion spargisale aveva consentito al suo Boeing 747 di atterrare. Naturalmente, di fingers neanche a parlarne. Dovette aspettare altri 10 minuti buoni che il bus di collegamento si facesse strada tra i cumuli di neve e li caricasse per riportarli all’aerostazione di Malpensa. Povera Italia, pensò il ragazzo e si preparò ad affrontare la giornata con santa pazienza. Le esequie si svolsero nella chiesa di S. Marco. Silvia aveva lasciato Davide a casa con la babysitter.

martedì 17 maggio 2011

Davide (I parte)

Il ragazzo si svegliò in un bagno di sudore nella palafitta a Provincetown, una fredda domenica di fine novembre. Il vento dell’Atlantico sollevava sbuffi d’acqua e schiaffi di ghiaia che sbattevano violentemente contro i vetri della finestra della camera da letto. Ad Andrew bastò guardarlo scendere giù per le scale con i capelli appiccicati sulla fronte per capire che aveva fatto un brutto sogno. Non capiva come facesse a sognare anche di pomeriggio quando lui non sognava mai niente. Ma quello non era il momento per fare una sceneggiata di gelosia. Accolse il ragazzo tra le sue braccia forti e gli offrì una tazzina di caffé appena fatto con la moka e tutti i sacri crismi, come gli aveva insegnato lui. Forse avrebbe fatto meglio a svegliarlo, pensò, ma ultimamente era sempre così stanco e stressato per il lavoro e aveva voluto lasciarlo dormire ancora un po’. Il ragazzo cominciò a raccontare il suo sogno come faceva sempre: con parole chiare e precise, come se fossero impresse a fuoco nella sua memoria.

“Mi esercito a riconoscere le canne fumarie dei vicini dalle ombre che si allungano sui tetti. Le rincorro sulle tegole al tramonto e poi giù per le rampe nel cortile, morbide e sinuose come dive del cinema muto. Modellano il lungo strascico nero sui bordi consumati dei gradini. E mi ritrovo bambino a fissare a naso in su il quadrato di cielo sopra il letto. Un lampo di luce. Un sibilo attutito. L’aereo che precipita tra le urla della gente. Sembra una stella. Una stella cadente.”
Mentre ascoltava con poca attenzione come al solito, Andrew aveva preparato le valigie e messo a posto la casa. Era tardi e dovevano tornare a New York.
Il ragazzo non si fece pregare. Bevve il caffè, si dette giusto una sciacquata al viso e fu pronto per andare. Il tempo era orribile. Era una notte senza luna e senza stelle. Non valeva la pena di restare a dormire lì, per poi fare una levataccia e affrontare il traffico impazzito del lunedì mattina per rientrare in città. Nel viaggio di ritorno parlarono poco. Per lo più ascoltarono le news alla radio. C’era stato un terribile incidente aereo in Europa. Duecento morti. Nessun superstite. Il ragazzo ne fu molto colpito e neppure Andrew riuscì a restare calmo e indifferente stavolta, dopo il sogno che gli aveva appena raccontato. Ma poi in cuor suo lo liquidò come una banale coincidenza e al casello di New York l’aveva già dimenticato. Il ragazzo invece era ancora visibilmente turbato.

lunedì 9 maggio 2011

Sogno n° 7


Sono in piedi in mezzo al parco. Guardo in alto e vedo la mia casa. Il muro cieco che si affaccia sul parco verso est è completamente sventrato dai bombardamenti. Vedo i solai in sezione e le pareti interne. E’ rimasto solo lo scheletro delle scale che collegano i cinque piani, ma al posto dei gradini ci sono i corpi distesi dei personaggi delle vecchie favole canore, pressati gli uni sopra gli altri come sardine, con le braccia strette lungo i due lati del corpo. Hanno vestiti sfarzosi e variopinti, armature, scarpe a punta, corpetti, gonne a balze e nastri nei capelli, proprio come nelle pagine dei libri delle favole che sfogliavo quando sul disco si sentiva il suono della campanella. Sono immobilizzati ma stanno bene e continuano a berciare tra loro, ma non riesco a sentirli da quaggiù. Dalla mia posizione riesco a vedere le loro facce che annuiscono o dissentono animatamente, assecondando con i movimenti della testa i loro discorsi. Ma io devo salire in casa e li devo calpestare per forza. Mi avvicino piano piano e poggio il piede destro sulla testa del primo uomo-scalino. E’ una guardia reale grande e grossa nella sua divisa michelangiolesca a strisce verticali gialle e blu come quelle del Vaticano, ma è così grasso che le strisce sembrano quasi orizzontali. Quando lo calpesto lui non fa una piega. Giusto una smorfia e ricomincia a parlare con deferenza alla dama con la gonna a balze e il nastro giallo tra i capelli che chissà cosa gli ha chiesto.
Se è andata bene con lui, penso, posso continuare. E così salgo a casa mia: c’è chi ride, chi mastica, chi dorme e chi parla tranquillamente, ma nessuno si lamenta che gli metto i piedi in testa.
C’è un grande cancello nero con le punte delle lance dorate come a Hide Park a Londra o ai giardini delle Tuileries a Parigi che mi chiude la vista del parco dal balcone di casa. Lo stanno tirando su in questo momento: vedo vigili urbani, ingegneri e muratori con i caschi bianchi e i corpetti arancione catarifrangente che ficcano i pali di ferro nella terra e avvitano bulloni, stringono viti e in men che non si dica erigono una barriera nera e invalicabile davanti alla mia finestra.

giovedì 5 maggio 2011

Andrew (XI parte)

Andrew non riusciva a crederci quando il ragazzo gli raccontò tutta la storia mostrandogli il contratto, e promise di non togliersi mai più quelle lenti colorate visto che a lui piacevano così tanto. Perché non gliel’aveva detto prima? Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. Lo amava infinitamente e si sentiva riamato allo stesso modo.
Vuoi il lavoro, vuoi la maledetta routine della vita quotidiana, se l’intensità dell’amore tra i due cresceva, quella del sesso andò scemando con il tempo. La passione si riaccendeva impetuosa solo nei week-end che i due passavano immancabilmente a Provincetown: sole, pioggia o neve che fosse. Alla fine l’avevano comprata quella palafitta sulla spiaggia e la stavano arredando pian piano con mobili scovati nei mercatini di New York e Boston, quadri acquistati nelle gallerie d’arte di Provincetown e zuppiere di ogni tipo –il ragazzo ne andava letteralmente pazzo- prese un po’ ovunque. D’inverno Provincetown si svuotava di turisti e la popolazione non raggiungeva un centinaio d’anime. Col passare del tempo i due diventarono amici di tutti gli artisti, i ristoratori e i galleristi del villaggio che a loro facevano prezzi stracciati. Chi non amava il riccone americano e il giovane italiano lì in paese? Li chiamavano “Blue and Joy” alludendo ai profondi occhi blu e ai nobili natali dell’americano –ormai non si toglieva più quelle lentine- ma soprattutto al carattere dei due: Andrew così tranquillo e pacato da apparire quasi triste in confronto all’esuberanza mediterranea del ragazzo dagli occhi scuri.
Passò un anno bellissimo. L’amore cresceva e presto arrivarono anche i primi successi professionali per il ragazzo. Sfruttando la creatività vera o presunta tale degli italiani all’estero seppe farsi valere in agenzia e dopo i sei mesi di prova riuscì a farsi assumere. Gli vennero affidate alcune campagne per clienti internazionali del settore del design e della moda –i più ambiti in agenzia- che gli fecero conquistare la stima di Jon e degli account e l’invidia dei creativi che andavano dicendo in giro che il ragazzo era un raccomandato mafioso come tutti gli italiani.
“Per fortuna Jon è uno sciupafimmene” gli disse Andrew azzardando qualche parola in dialetto che gli aveva insegnato il ragazzo “altrimenti avrebbero detto che sei un gran pompinaro. E su questo potrei confermare io” concluse con un’ironia tipicamente anglosassone e una risata tipicamente italiana.

mercoledì 4 maggio 2011

Andrew (X parte)


Alla fine di agosto dovevano tornare a New York. Erano entrambi molto tristi. Trascorsero l’intero viaggio in macchina da Provincetown in silenzio. Il ragazzo non aprì bocca neppure per chiedere ad Andrew di fare tappa a Fairfield. Il permesso turistico di tre mesi era ormai scaduto e doveva tornare in Italia, ma non intendeva lasciare la sua terra promessa e il suo nuovo amore che intanto era diventato sempre più grande. Appena arrivati nell’appartamentino con i mattoncini rossi i due si buttarono sul letto e fecero sesso con la stessa voracità della prima volta, come se fosse l’ultima. Andrew tentò di consolarlo e di farlo addormentare sul suo petto, ma il ragazzo inondò di lacrime i pettorali e i capezzoli dell’americano che aveva appena finito di bagnare di saliva in un petting post-coito molto tenero ed eccitante, quanto inatteso. La mattina dopo Andrew telefonò a un amico di famiglia che non sentiva da secoli, proprietario di una delle più grosse agenzie di pubblicità della città, e gli fissò un appuntamento.
Jonathan, per gli amici Jon, era un tipico inglese di Liverpool: alto, biondo, con gli occhi azzurri e –il ragazzo non poté impedirsi di non notarlo- almeno un 46 di piede.
Il ragazzo gli parlò della sua tesi sui bambini e la pubblicità e gli mostrò sul suo Mac-Book alcuni annunci fatti da lui stesso sul tema.
Più che la qualità degli annunci a Jon piacque il modo in cui glieli presentò. Il ragazzo aveva buona padronanza della lingua, ostentava una certa sicurezza e soprattutto –fu questa la cosa che più di tutte lo convinse, come poi confessò ad Andrei al telefono- non aveva alcun timore reverenziale nei suoi confronti. Quella che il boss aveva scambiato per audacia era pura e semplice curiosità. In effetti il ragazzo aveva fissato Jon dritto negli occhi per tutto il colloquio, attratto dal blu intenso del suo sguardo: lo stesso blu che aveva Andrew quando metteva le lenti a contatto colorate. E per tutto il tempo aveva cercato di capire se anche Jon avesse su delle lentine o se quello fosse davvero il suo colore naturale. Fu così che il ragazzo ottenne uno stage presso l’agenzia che prevedeva sei mesi di prova non retribuiti e successivamente la possibilità di un contratto di collaborazione a tempo determinato. Ma soprattutto per lui significava il rinnovamento del permesso di soggiorno per un anno e il proseguimento della sua relazione.

martedì 3 maggio 2011

Andrew (IX parte)


Dopo la settimana prenotata al Boatsleep hotel, innamorati di quel luogo Andrew e il ragazzo cancellarono il resto del tour e affittarono una deliziosa palafitta sulla spiaggia per il resto dell’estate.
Ogni mattina dopo aver fatto l’amore e una bella colazione a base di pancake e  sciroppo d’acero, si tuffavano nudi nelle gelide acque dell’Atlantico per raffreddare i bollori e finalmente sazi l’uno dell’altro si stendevano ad asciugare al sole.
Quel giorno il ragazzo si distese sulla spiaggia vicino a un gruppo di sassi neri cotti dal sole e inspirò profondamente il profumo del mare. Il nasello dei suoi Rayban si era slargato e le ciglia sbattevano contro le lenti scure. Fu allora che si accorse che piangeva senza apparente motivo. Tutto intorno era un paradiso. Pura bellezza: il mare dai riflessi dorati, il sole a picco, la pelle del suo compagno liscia e ambrata si tendeva a ogni respiro. Andrew riposava calmo e sereno, mentre lui pur consapevole della meraviglia che aveva intorno non riusciva ad essere felice. La sua mente vagava in preda a una irrequietezza febbrile, a dispetto dell’immobilità del proprio corpo nudo steso al sole.
Provò a dare la colpa delle lacrime alla crudeltà della natura per quel cormorano morto e semi-spolpato dai pesci o per quella distesa iridescente di meduse spiaggiate e arse vive dal solleone. Ma non gli riuscì di crederci neppure facendo appello alla sua estrema sensibilità. Si titillò la punta del cazzo per vedere di distrarsi un po’ si sistemò meglio sul pareo: c’era un maledetto sasso proprio lì sotto il coccige. Lo scovò con la mano e lo lanciò rabbioso contro il mare, il più lontano possibile. Ma neppure quel gesto liberatorio gli procurò sollievo. Allora guardò in alto. Le nuvole. Le sue amate nuvole si addensavano in alti cumuli, bianchi e vaporosi come stecchi di zucchero filato. Cominciò a osservarle cercando di distinguere qualcosa: un segno, un disegno. Qualunque cosa potesse distoglierlo da quel triste stato. Individuò subito due gruppi di nubi che procedevano in direzione opposta, spinte da chissà quali correnti, come due battaglioni l’un contro l’altro armati. Sulla sinistra un dragone sputava fuoco dalle fauci aperte. Poco più in là gli sembrò di scorgere un sagittario imbizzarrito, pronto a scoccare una lancia dal suo arco teso. Ma subito quel nuvolone mezzo uomo, mezzo cavallo si trasformò in un altro dio: uno Zeus accigliato e nasuto che spingeva le sue truppe alla battaglia. Si esercitò a prevedere il momento esatto dell’impatto. Una collisione sorda eppure incontenibile. E finalmente venne.

sabato 12 febbraio 2011

Andrew (VIII parte)

In verità era abbastanza ricco da poter vivere di rendita anche prima di ricevere l’eredità –la sua era una delle più facoltose famiglie del New England-.
Oltre al delizioso appartamento coi mattoncini rossi e la vista sull’Hudson dove aveva portato il ragazzo la notte in cui si erano conosciuti, Andrew aveva anche una villa negli Hamptons dove non andava più tanto volentieri da quando aveva litigato col fratello e una piccola casa a metà strada tra New York e Boston. Era quella la prima tappa del loro viaggio. Solo Andrew con il suo understatement da perfetto WASP avrebbe potuto definire “piccola” una villa a due piani in stile coloniale con trecento ettari di parco e la vigilanza privata, immersa tra i boschi di querce secolari della splendida contea di Fairfield. Il ragazzo se ne innamorò all’istante. Della casa, ma soprattutto del parco col laghetto artificiale dove si abbeveravano i daini e i cigni nuotavano pigramente alla luce del sole che filtrava tra i rami delle querce.
Andrew trovava pretenziosa l’architettura della villa. L’ostentata opulenza degli arredi che al ragazzo piaceva tanto perché gli ricordavano i mobili della nonna, cozzava così tanto con la sbrietà del suo nuovo stile di vita che Andrew volle ripartire di buon ora il giorno dopo.
Quando arrivarono al Boatsleep Hotel non era neppure mezzogiorno e nella piscina dell’albergo –l’unica in tutta Provincetown- non c’era ancora nessuno. I primi ospiti si calarono nella hall ancora mezzi addormentati dopo la notte di baldoria in discoteca solo verso le due. In quel paio d’ore Andrew e il ragazzo poterono godersi la piscina e la vista dell’oceano in santa pace. Al ragazzo sembrò pure di scorgere in lontananza lo sbuffo di una balena che saliva in superficie a rifiatare e lanciò un urlo garrulo, ma Andrew
dovette prenderlo come uno dei suoi soliti sogni a occhi aperti – in pochi giorni aveva già potuto sperimentare le stranezze del giovane italiano e la sua folcloristica convinzione di essere una specie di medium- e non si alzò neppure dal lettino. Alle tre non ce n’era più uno libero. Uomini gay di tutte le età e di tutte le razze si spalmavano d’olio i corpi scolpiti dal work-out, il winstrol e il nandrolone sfilando nei loro speedo striminziti tra i lettini e il bar che già pompava musica dance a tutto volume. Alle quattro in punto il barman/dj urlò qualcosa nel microfono e simultaneamente tutti gli ospiti, come se fossero a una lezione di aerobica, presero i lettini e li ruotarono di 90 gradi per metterli in direzione del sole. L’operazione fu eseguita in così breve tempo e con una tale sincronia di movimenti che la folla esplose in un fragoroso applauso a cui aderirono eccitati sia Andrew che il ragazzo, gli unici lì in mezzo a non conoscere il famoso rito del Boatsleep.
La prima giornata in quell’oasi gay ai confini del mondo si concluse con uno strepitoso tramonto sull’oceano. Ma loro non lo videro. Erano troppo presi a fare l’amore tra le dune alle spalle della spiaggia. Nei giorni seguenti lasciarono la folla di “muscle mary” ai loro riti di adorazione del sole e si lanciarono alla scoperta della cittadina. Provincetown era sorta al posto di un antico villaggio di pescatori portoghesi arrivati in America sulla rotta delle balene che avevano deciso di stabilirsi in quella stretta lingua di terra sull’Atlantico, attratti dal suo clima mite e dal suo mare ricco di pesce.
Con la messa al bando della caccia alle balene da parte del governo degli Stati Uniti le povere case dei pescatori erano state prima affittate agli hippie, poi acquistate da una esigua cerchia di intellettuali e artisti in cerca di tranquillità e d’ispirazione. Alla fine erano state trasformate in ristoranti e gallerie d’arte che avevano mantenuto intatto il loro fascino naif, attraendo la ricca ed esigente comunità gay del New England, in fuga dal bigottismo dell’alta borghesia americana in vacanza agli Hamptons. Come New York aveva la sua Fire Island, così ora Boston aveva la sua Provincetown.

lunedì 7 febbraio 2011

Andrew (VII parte)


“Nice to meet you!” fece con enorme piacere dando la mano ad Andrew, dopo averla estratta ancora calda dall’incavo in mezzo alle sue cosce.
Andrew gli strinse la mano, lo trasse a sé e gli infilò la sinistra tra le chiappe, facendosi largo con grande abilità nei jeans attillati del ragazzo. L’effetto sul ragazzo fu immediato e inequivocabile. Andrew capì in un solo gesto le dimensioni e le sue preferenze sessuali, e fu sicuro che gli sarebbe piaciuto.
Si chiamava Andrew Lush. Lush come lussuria, pensò il ragazzo mentre si addormentava con la testa sul suo petto, dopo una notte di sesso travolgente. Furono svegliati dal suono incalzante delle sveglie dei rispettivi cellulari, sincronizzate entrambe sulle 8. Fu così che scoprirono -con un certo sollievo, come si sarebbero confessati in seguito- di essere entrambi sieropositivi. Forse fu quel piccolo incidente, forse fu il fascino fatale della grande mela che gli aveva finalmente offerto un incontro interessante: la verità è che il biglietto di ritorno per l’Italia non fu mai usato. Il ragazzo continuò il tour dell’America con il suo nuovo lussurioso amore. Nel viaggio in auto verso Boston scoprì che Andrew era un giovane avvocato ebreo di una decina d’anni più grande di lui che “aveva fatto il giro completo della giostra” come diceva lui, ma che ormai non usciva quasi più. Era stato solo un caso se quella sera l’aveva incontrato al Palladium. Era il compleanno di Ted, il suo migliore amico –gliel’aveva presentato in discoteca ma il ragazzo non se lo ricordava proprio- e dopo la cena a sorpresa che Andrew aveva organizzato con amici comuni a casa sua, tutto il gruppo l’aveva convinto a mettersi su qualcosa per andare a ballare. “Qualcosa che non comprendeva le mutande, eh?” commentò il ragazzo ingranando la quinta.
“Stiupido” rispose Andrew nell’italiano stentato che aveva imparato al college.
“Probablymente ero fuori, baby” continuò con un sorriso sornione “You know, my K is the best in town!”
Andrew aveva mantenuto solo quella cattiva abitudine della sua vita precedente. Lui lo chiamava “the circuit”: un vero e proprio circuito fatto di party esclusivi e locali di tendenza dove si davano appuntamento tutti i “muscle mary” come lui: giovani gay palestrati, sballati e spensierati. “Niente più christal, exstacy o speed” si difendeva lui, snocciolando i nomi delle più letali sostanze stupefacenti in circolazione con voce da santarellino. “Solo un po’ di K una volta ogni tanto. Solo nelle occasioni speciali. Per questo si chiama special, no?” sorrideva agitando la fiala di ketamina sotto il naso del ragazzo in attesa della sua approvazione. La sua K era davvero speciale. Mica la cuoceva nel microonde, lui. Troppo chip! La lasciava essiccare lentamente sul davanzale del balcone al sole di Manhattan. Il risultato era una droga più “naturale” –da buon americano mimava le virgolette con un rapido movimento dell’indice e del medio- ma dall’effetto davvero straordinario. Il ragazzo poteva confermarlo. A parte quello, da quando si era scoperto sieropositivo Andrew aveva completamente cambiato vita. S’era messo in pensione dopo quarant’anni di “I and law” come amava dire lui, giocando sull’ambiguità della pronuncia inglese che poteva riferirsi tanto alla sua carriera di avvocato, quanto agli “high and low” delle droghe.

lunedì 31 gennaio 2011

Andrew (VI parte)

La sera prima di lasciare New York Michael lo portò al Palladium. Era il compleanno di Junior Vasquez e il grande dj avrebbe suonato per il suo pubblico di fan da tutto il mondo. Michael era gasatissimo e lo costrinse a buttare giù un’exstacy sul taxi, prima ancora di arrivare in discoteca. Pioveva. Erano ancora in coda alla cassa quando il ragazzo non ce la fece più e vomitò l’anima dentro un portaombrelli. Poi, come se nulla fosse, si pulì la bocca con un clinex ed entrò. Michael gli fece i complimenti per la chiccheria con cui si era liberato e gli soffiò un po’ d’aria fresca in faccia. Tra la pioggia e il sudore per la droga il ragazzo era completamente zuppo e aveva i capelli spiaccicati sulla fronte come se l’avesse leccato una mucca. Tanto che quando lo vide entrare il grosso buttadentro di colore fece l’occhiolino a Michael e chiese al ragazzo: “Are you coming from a sauna, man!?”
Il Palladium era strepitoso. Michael dovette incaricarsi del guardaroba. Il ragazzo s’era incantato ad ammirare l’enorme scalinata in vetro trasparente e i mille led luminosi dei gradini che creavano un effetto psichedelico riflessi dal soffitto a specchio. C’erano tre sale al primo piano, ma le due laterali erano state trasformate in immense darkroom dietro pesanti tende di plastica nera. Nei due corridoi che s’erano venuti a formare ai lati della pista centrale si svolgevano delle vere e proprie sfilate di moda. Drag-queen vestiti solo di piume e minigonne incedevano su vertiginosi tacchi a spillo con un’eleganza da far invidia a qualsiasi donna. Quando Vasquez mixò Vogue di Madonna accadde l’incredibile. Praticamente l’intera discoteca si bloccò e tutta la gente in pista si divise in due enormi ali di folla che si fermarono ad ammirare i catwalk improvvisati da quelle modelle in agguerrita competizione. Sguardi affilati come stilettate, espressioni altere, trucco impeccabile, portamento marziale: quei trans erano le copie in carne e ossa delle modelle di carta che il ragazzo ritagliava dalle riviste della mamma. Gli applausi della folla decidevano chi andava e chi restava dopo ogni scontro a due, finché i due vincitori si sfidarono a singolare tenzone al centro della pista. Il ragazzo era salito su per godersi meglio la scena. Al piano di sopra c’era un’altra grande sala immersa nell’oscurità e occupata per metà da un castello gonfiabile come quelle per bambini, ma dieci volte più grande. Ondeggiava di qua e di là, sussultando come durante un terremoto. Ogni tanto da un’uscita laterale veniva fuori qualcuno tutto sudato: chi a torso nudo, chi con i pantaloni e le scarpe in mano.
Il ragazzo si accostò incuriosito all’ingresso più vicino ma non riuscì a vedere niente. All’interno era tutto un intrico di tunnel scuri in cui si intravedevano ogni tanto corpi avvinghiati in strane evoluzioni.
Quando il ragazzo fece per tornare indietro si accorse con piacere che quel bel manzo con i pettorali da urlo che aveva adocchiato giù in pista era dietro di lui. C’aveva visto giusto allora. Almeno a giudicare da quel grosso bozzo che puntava dritto verso di lui, sotto i pantaloni della tuta quel tipo non doveva portare le mutande. Non ripeté l’errore fatto ad Amsterdam. Approfittando della calca e con l’alibi del tiro di key che Andrew –così si chiamava- gli aveva appena offerto, gli fece un accurato check-the-basket.