martedì 31 maggio 2011

Davide (II parte)


La spia rossa della segreteria di casa indicava che c’era un messaggio in attesa. Era Silvia. Singhiozzava. Aveva provato sul suo maledetto cellulare ma a Provincetown non c’era campo. I suoi erano su quel aereo. Erano precipitati all’una di notte sopra il Mare del Nord, di ritorno dal loro viaggio a Stoccolma. Il pilota aveva tentato l’ammaraggio ma un’ala aveva colpito l’acqua. L’aereo s’era spezzato in due ed era esploso immediatamente.
Il ragazzo sbiancò. Singhiozzava così tanto da non riuscire a spiegare ad Andrew cosa fosse successo. Gli fece segno di riavvolgere il nastro e riascoltare il messaggio da sé.
Andrew ormai conosceva abbastanza bene l’italiano e non gli ci volle molto per collegare le parole di Silvia alla notizia ascoltata in macchina e al racconto del ragazzo.
Il ragazzo fece un veloce calcolo mentale: l’una di notte in Italia erano le cinque del pomeriggio a New York. L’aereo era caduto esattamente nello stesso momento in cui aveva fatto il sogno dell’incidente. Ma non lo disse a Silvia quando le telefonò per avvisarla che avrebbe preso il primo volo per Milano.
Trovò la città coperta da una spessa coltre bianca. Nessuno ricordava una nevicata così da almeno 30 anni. Tanto meno lui. In una sola notte erano venuti giù 35 centimetri di neve. Le strade erano bloccate. Le scuole chiuse. Solo l’intervento dei camion spargisale aveva consentito al suo Boeing 747 di atterrare. Naturalmente, di fingers neanche a parlarne. Dovette aspettare altri 10 minuti buoni che il bus di collegamento si facesse strada tra i cumuli di neve e li caricasse per riportarli all’aerostazione di Malpensa. Povera Italia, pensò il ragazzo e si preparò ad affrontare la giornata con santa pazienza. Le esequie si svolsero nella chiesa di S. Marco. Silvia aveva lasciato Davide a casa con la babysitter.

martedì 17 maggio 2011

Davide (I parte)

Il ragazzo si svegliò in un bagno di sudore nella palafitta a Provincetown, una fredda domenica di fine novembre. Il vento dell’Atlantico sollevava sbuffi d’acqua e schiaffi di ghiaia che sbattevano violentemente contro i vetri della finestra della camera da letto. Ad Andrew bastò guardarlo scendere giù per le scale con i capelli appiccicati sulla fronte per capire che aveva fatto un brutto sogno. Non capiva come facesse a sognare anche di pomeriggio quando lui non sognava mai niente. Ma quello non era il momento per fare una sceneggiata di gelosia. Accolse il ragazzo tra le sue braccia forti e gli offrì una tazzina di caffé appena fatto con la moka e tutti i sacri crismi, come gli aveva insegnato lui. Forse avrebbe fatto meglio a svegliarlo, pensò, ma ultimamente era sempre così stanco e stressato per il lavoro e aveva voluto lasciarlo dormire ancora un po’. Il ragazzo cominciò a raccontare il suo sogno come faceva sempre: con parole chiare e precise, come se fossero impresse a fuoco nella sua memoria.

“Mi esercito a riconoscere le canne fumarie dei vicini dalle ombre che si allungano sui tetti. Le rincorro sulle tegole al tramonto e poi giù per le rampe nel cortile, morbide e sinuose come dive del cinema muto. Modellano il lungo strascico nero sui bordi consumati dei gradini. E mi ritrovo bambino a fissare a naso in su il quadrato di cielo sopra il letto. Un lampo di luce. Un sibilo attutito. L’aereo che precipita tra le urla della gente. Sembra una stella. Una stella cadente.”
Mentre ascoltava con poca attenzione come al solito, Andrew aveva preparato le valigie e messo a posto la casa. Era tardi e dovevano tornare a New York.
Il ragazzo non si fece pregare. Bevve il caffè, si dette giusto una sciacquata al viso e fu pronto per andare. Il tempo era orribile. Era una notte senza luna e senza stelle. Non valeva la pena di restare a dormire lì, per poi fare una levataccia e affrontare il traffico impazzito del lunedì mattina per rientrare in città. Nel viaggio di ritorno parlarono poco. Per lo più ascoltarono le news alla radio. C’era stato un terribile incidente aereo in Europa. Duecento morti. Nessun superstite. Il ragazzo ne fu molto colpito e neppure Andrew riuscì a restare calmo e indifferente stavolta, dopo il sogno che gli aveva appena raccontato. Ma poi in cuor suo lo liquidò come una banale coincidenza e al casello di New York l’aveva già dimenticato. Il ragazzo invece era ancora visibilmente turbato.

lunedì 9 maggio 2011

Sogno n° 7


Sono in piedi in mezzo al parco. Guardo in alto e vedo la mia casa. Il muro cieco che si affaccia sul parco verso est è completamente sventrato dai bombardamenti. Vedo i solai in sezione e le pareti interne. E’ rimasto solo lo scheletro delle scale che collegano i cinque piani, ma al posto dei gradini ci sono i corpi distesi dei personaggi delle vecchie favole canore, pressati gli uni sopra gli altri come sardine, con le braccia strette lungo i due lati del corpo. Hanno vestiti sfarzosi e variopinti, armature, scarpe a punta, corpetti, gonne a balze e nastri nei capelli, proprio come nelle pagine dei libri delle favole che sfogliavo quando sul disco si sentiva il suono della campanella. Sono immobilizzati ma stanno bene e continuano a berciare tra loro, ma non riesco a sentirli da quaggiù. Dalla mia posizione riesco a vedere le loro facce che annuiscono o dissentono animatamente, assecondando con i movimenti della testa i loro discorsi. Ma io devo salire in casa e li devo calpestare per forza. Mi avvicino piano piano e poggio il piede destro sulla testa del primo uomo-scalino. E’ una guardia reale grande e grossa nella sua divisa michelangiolesca a strisce verticali gialle e blu come quelle del Vaticano, ma è così grasso che le strisce sembrano quasi orizzontali. Quando lo calpesto lui non fa una piega. Giusto una smorfia e ricomincia a parlare con deferenza alla dama con la gonna a balze e il nastro giallo tra i capelli che chissà cosa gli ha chiesto.
Se è andata bene con lui, penso, posso continuare. E così salgo a casa mia: c’è chi ride, chi mastica, chi dorme e chi parla tranquillamente, ma nessuno si lamenta che gli metto i piedi in testa.
C’è un grande cancello nero con le punte delle lance dorate come a Hide Park a Londra o ai giardini delle Tuileries a Parigi che mi chiude la vista del parco dal balcone di casa. Lo stanno tirando su in questo momento: vedo vigili urbani, ingegneri e muratori con i caschi bianchi e i corpetti arancione catarifrangente che ficcano i pali di ferro nella terra e avvitano bulloni, stringono viti e in men che non si dica erigono una barriera nera e invalicabile davanti alla mia finestra.

giovedì 5 maggio 2011

Andrew (XI parte)

Andrew non riusciva a crederci quando il ragazzo gli raccontò tutta la storia mostrandogli il contratto, e promise di non togliersi mai più quelle lenti colorate visto che a lui piacevano così tanto. Perché non gliel’aveva detto prima? Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. Lo amava infinitamente e si sentiva riamato allo stesso modo.
Vuoi il lavoro, vuoi la maledetta routine della vita quotidiana, se l’intensità dell’amore tra i due cresceva, quella del sesso andò scemando con il tempo. La passione si riaccendeva impetuosa solo nei week-end che i due passavano immancabilmente a Provincetown: sole, pioggia o neve che fosse. Alla fine l’avevano comprata quella palafitta sulla spiaggia e la stavano arredando pian piano con mobili scovati nei mercatini di New York e Boston, quadri acquistati nelle gallerie d’arte di Provincetown e zuppiere di ogni tipo –il ragazzo ne andava letteralmente pazzo- prese un po’ ovunque. D’inverno Provincetown si svuotava di turisti e la popolazione non raggiungeva un centinaio d’anime. Col passare del tempo i due diventarono amici di tutti gli artisti, i ristoratori e i galleristi del villaggio che a loro facevano prezzi stracciati. Chi non amava il riccone americano e il giovane italiano lì in paese? Li chiamavano “Blue and Joy” alludendo ai profondi occhi blu e ai nobili natali dell’americano –ormai non si toglieva più quelle lentine- ma soprattutto al carattere dei due: Andrew così tranquillo e pacato da apparire quasi triste in confronto all’esuberanza mediterranea del ragazzo dagli occhi scuri.
Passò un anno bellissimo. L’amore cresceva e presto arrivarono anche i primi successi professionali per il ragazzo. Sfruttando la creatività vera o presunta tale degli italiani all’estero seppe farsi valere in agenzia e dopo i sei mesi di prova riuscì a farsi assumere. Gli vennero affidate alcune campagne per clienti internazionali del settore del design e della moda –i più ambiti in agenzia- che gli fecero conquistare la stima di Jon e degli account e l’invidia dei creativi che andavano dicendo in giro che il ragazzo era un raccomandato mafioso come tutti gli italiani.
“Per fortuna Jon è uno sciupafimmene” gli disse Andrew azzardando qualche parola in dialetto che gli aveva insegnato il ragazzo “altrimenti avrebbero detto che sei un gran pompinaro. E su questo potrei confermare io” concluse con un’ironia tipicamente anglosassone e una risata tipicamente italiana.

mercoledì 4 maggio 2011

Andrew (X parte)


Alla fine di agosto dovevano tornare a New York. Erano entrambi molto tristi. Trascorsero l’intero viaggio in macchina da Provincetown in silenzio. Il ragazzo non aprì bocca neppure per chiedere ad Andrew di fare tappa a Fairfield. Il permesso turistico di tre mesi era ormai scaduto e doveva tornare in Italia, ma non intendeva lasciare la sua terra promessa e il suo nuovo amore che intanto era diventato sempre più grande. Appena arrivati nell’appartamentino con i mattoncini rossi i due si buttarono sul letto e fecero sesso con la stessa voracità della prima volta, come se fosse l’ultima. Andrew tentò di consolarlo e di farlo addormentare sul suo petto, ma il ragazzo inondò di lacrime i pettorali e i capezzoli dell’americano che aveva appena finito di bagnare di saliva in un petting post-coito molto tenero ed eccitante, quanto inatteso. La mattina dopo Andrew telefonò a un amico di famiglia che non sentiva da secoli, proprietario di una delle più grosse agenzie di pubblicità della città, e gli fissò un appuntamento.
Jonathan, per gli amici Jon, era un tipico inglese di Liverpool: alto, biondo, con gli occhi azzurri e –il ragazzo non poté impedirsi di non notarlo- almeno un 46 di piede.
Il ragazzo gli parlò della sua tesi sui bambini e la pubblicità e gli mostrò sul suo Mac-Book alcuni annunci fatti da lui stesso sul tema.
Più che la qualità degli annunci a Jon piacque il modo in cui glieli presentò. Il ragazzo aveva buona padronanza della lingua, ostentava una certa sicurezza e soprattutto –fu questa la cosa che più di tutte lo convinse, come poi confessò ad Andrei al telefono- non aveva alcun timore reverenziale nei suoi confronti. Quella che il boss aveva scambiato per audacia era pura e semplice curiosità. In effetti il ragazzo aveva fissato Jon dritto negli occhi per tutto il colloquio, attratto dal blu intenso del suo sguardo: lo stesso blu che aveva Andrew quando metteva le lenti a contatto colorate. E per tutto il tempo aveva cercato di capire se anche Jon avesse su delle lentine o se quello fosse davvero il suo colore naturale. Fu così che il ragazzo ottenne uno stage presso l’agenzia che prevedeva sei mesi di prova non retribuiti e successivamente la possibilità di un contratto di collaborazione a tempo determinato. Ma soprattutto per lui significava il rinnovamento del permesso di soggiorno per un anno e il proseguimento della sua relazione.

martedì 3 maggio 2011

Andrew (IX parte)


Dopo la settimana prenotata al Boatsleep hotel, innamorati di quel luogo Andrew e il ragazzo cancellarono il resto del tour e affittarono una deliziosa palafitta sulla spiaggia per il resto dell’estate.
Ogni mattina dopo aver fatto l’amore e una bella colazione a base di pancake e  sciroppo d’acero, si tuffavano nudi nelle gelide acque dell’Atlantico per raffreddare i bollori e finalmente sazi l’uno dell’altro si stendevano ad asciugare al sole.
Quel giorno il ragazzo si distese sulla spiaggia vicino a un gruppo di sassi neri cotti dal sole e inspirò profondamente il profumo del mare. Il nasello dei suoi Rayban si era slargato e le ciglia sbattevano contro le lenti scure. Fu allora che si accorse che piangeva senza apparente motivo. Tutto intorno era un paradiso. Pura bellezza: il mare dai riflessi dorati, il sole a picco, la pelle del suo compagno liscia e ambrata si tendeva a ogni respiro. Andrew riposava calmo e sereno, mentre lui pur consapevole della meraviglia che aveva intorno non riusciva ad essere felice. La sua mente vagava in preda a una irrequietezza febbrile, a dispetto dell’immobilità del proprio corpo nudo steso al sole.
Provò a dare la colpa delle lacrime alla crudeltà della natura per quel cormorano morto e semi-spolpato dai pesci o per quella distesa iridescente di meduse spiaggiate e arse vive dal solleone. Ma non gli riuscì di crederci neppure facendo appello alla sua estrema sensibilità. Si titillò la punta del cazzo per vedere di distrarsi un po’ si sistemò meglio sul pareo: c’era un maledetto sasso proprio lì sotto il coccige. Lo scovò con la mano e lo lanciò rabbioso contro il mare, il più lontano possibile. Ma neppure quel gesto liberatorio gli procurò sollievo. Allora guardò in alto. Le nuvole. Le sue amate nuvole si addensavano in alti cumuli, bianchi e vaporosi come stecchi di zucchero filato. Cominciò a osservarle cercando di distinguere qualcosa: un segno, un disegno. Qualunque cosa potesse distoglierlo da quel triste stato. Individuò subito due gruppi di nubi che procedevano in direzione opposta, spinte da chissà quali correnti, come due battaglioni l’un contro l’altro armati. Sulla sinistra un dragone sputava fuoco dalle fauci aperte. Poco più in là gli sembrò di scorgere un sagittario imbizzarrito, pronto a scoccare una lancia dal suo arco teso. Ma subito quel nuvolone mezzo uomo, mezzo cavallo si trasformò in un altro dio: uno Zeus accigliato e nasuto che spingeva le sue truppe alla battaglia. Si esercitò a prevedere il momento esatto dell’impatto. Una collisione sorda eppure incontenibile. E finalmente venne.