mercoledì 28 luglio 2010

Droppie (IX parte)

Ma a chi voleva darla a bere pensò mentre spingeva la bicicletta a piedi sul lungotevere. Non si è mai single per scelta. Aveva innestato il pilota automatico e quasi senza accorgersene era arrivato davanti al negozio di biciclette nel ghetto ebraico. Entrò e chiese gentilmente al proprietario, o almeno così gli sembrava di ricordare, se poteva per favore dargli una gonfiatina. L’anziano signore che stava dietro al bancone neppure gli rispose e gli fece cenno con la mano di servirsi da solo usando la pompa ad aria compressa messa gratuitamente a disposizione dei clienti all’esterno del negozio. Ma il ragazzo insisté. Voleva approfittare dell’occasione per cambiare anche la sella che s’impregnava tutta d’acqua quando pioveva e già che c’era farsi dare anche una stretta ai freni. La sella costava 30 euro. Doveva lasciargli la bici e passare a ritirarla il giorno dopo, bofonchiò l’uomo sempre senza sollevare gli occhi dal suo registro dei conti. Trenta euro era più di quanto aveva pagato la bici -che era rubata sì, ma era pur sempre una Rossignoli e in perfette condizioni- disse il ragazzo e chiese di vedere le selle. 
L’ebreo neanche gli rispose. Il negozio era vuoto, lui era l’unico cliente e non riusciva proprio a capire il perché di tanta maleducazione. Nulla poteva giustificare un simile comportamento, specialmente da parte di quel vecchio commerciante ebreo che pure doveva aver sperimentato sulla propria pelle quella stessa mancanza di riguardo, quella stessa odiosa indifferenza che ora stava riservando a lui. A parte la differenza d’età le esistenze di quel ebreo disilluso e di quel giovane omosessuale confuso erano accomunate dal medesimo destino di discriminazione e sofferenza. Una condizione comune e un comune sentire, proprio come diceva la lettera di Silvia –si disse- e ancora una volta il pensiero tornò all’amica e ai tempi del liceo. Ma fu solo per un breve istante. Il ragazzo non ebbe neanche il tempo di riaversi dalla sorpresa che il proprietario l’aveva già scaraventato fuori dal negozio, inveendo contro di lui e la sua bici di merda.
Ritornando a casa a piedi in preda a una tremenda tensione -testa bassa e pugni serrati sul manubrio della bici- con un mare di rabbia pronta a esplodere in un pianto dirotto, il ragazzo si sentiva ancora più confuso di quando era uscito. Cosa gli stava succedendo? Era stato come vedersi dal di fuori, incazzato col mondo intero senza sapere perché e senza riuscire a controllarsi. Sul lungotevere che lo riportava a casa, spompato come le ruote della sua bici, cercò di analizzarsi meglio. La sua era una vita piena di avventure e ricca di emozioni. Si sentiva appagato e soddisfatto delle sue scelte, ma ancora così inspiegabilmente irrequieto. Perché? Tutta colpa delle sue aspettative sempre così eccessive, soverchianti, estreme? Della sua innata e dissennata tendenza a sognare ad occhi aperti che lo stimolava certo a migliorarsi ma lo alienava dalla realtà? La quotidianità d’altra parte lo aveva sempre atterrito. Per lui quello non era vivere, ma sopravvivere. Aveva ereditato dal padre una visione eroica dell’uomo e un culto per la vita vissuta intensamente alla ricerca della conoscenza di sé, degli altri e del mondo. Ma la vita per lui era sempre altrove. E il suo continuo affannarsi alla ricerca di qualcosa non gli permetteva di godersi ciò che aveva. La felicità è desiderare quello che si ha, gli diceva sempre sua nonna. Ma lui questa storia non se l’era mai bevuta. Gli suonava così falsa e difensiva. Una frase da mediocri e da perdenti, tipo “le dimensioni non contano” di chi ce l’ha piccolo. E non c’era niente che il ragazzo odiasse più della mediocrità e dei cazzi piccoli. Se la prese anche con l’oroscopo che prevedeva un anno fantastico per il Toro. Si era lasciato sopraffare dalle maliziose sirene astrologiche: chimere di carta stampata che mai paghe del presente lo spingevano a chiedere sempre di più al suo futuro. Sulla vecchia Smemoranda che conservava gelosamente dall’ultimo anno di liceo aveva letto una citazione che diceva che si può essere giovani una volta sola ma immaturi tutta la vita. Lui era alla soglia dei trent’anni ma non sapeva cosa la vita avesse in serbo per lui né quanto tempo gli restava. Gli suonò la sveglia sul cellulare. Era l’ora delle sue pillole.

giovedì 1 luglio 2010

Droppie (VIII parte)

Il giorno successivo il ragazzo si svegliò più contento e dopo un’abbondante colazione col panettone di Marchesi che Silvia gli aveva portato da Milano entrò nello studio, deciso a riprendere in mano la sua tesi. Ma quando aprì l’iBook trovò un foglietto scritto a pennarello. Non si sorprese affatto di trovarlo. Silvia non se ne andava mai senza lasciare un segno del suo passaggio. Era nel suo stile e a lui piaceva.

“SENTITI UN CARTONE ANIMATO,
COSÌ NON MUORI MAI,
NON CESSI DI ESISTERE,
FAI RIDERE I BAMBINI
E SOPRATTUTTO NON PROGETTI
PICCOLE E GRANDI STRONZATE
IN OGNI PICCOLO SPAZIO E SENZA ARIA,
DOVE I PICCOLI CALCOLI,
I DESIDERI DI PICCOLI PROFITTI TI BUTTANO.”

E’ di Lucio Dalla, ma lo penso anch’io.
Metti un bicchiere fuori alla finestra e aspetta. Quando sarà pieno di pioggia potremo brindare a noi due. Al nostro essere così diversi in tutto questo bordello che sta capitando nelle nostre vite, al nostro essere così simili nel comune modo di sentire e credere nella gente e nell’amore. Non siamo più ragazzini, non siamo ancora adulti. Cerchiamo almeno di non essere nulla, da soli.
Tua Silvia.

Il ragazzo piegò il foglietto in due, richiuse il computer e uscì. Era una splendida giornata. Faceva caldo e decise di fare una pedalata in centro ma la bici aveva una ruota a terra e la portineria dove per comodità lasciava la sua pompa a quell’ora era sprangata.
Il portiere gli aveva confessato che bastava spingere la vecchia porta di legno per aprirla, anche quando era chiusa a chiave. Il ragazzo non ci aveva mai provato ma quel giorno aveva bisogno di schiarirsi un po’ le idee e non c’era niente di meglio di una bella pedalata. Così si fece coraggio e si avvicinò alla portineria. Spinse piano il battente sinistro della porta, si assicurò che nessuno scendesse per le scale e con un colpo secco l‘aprì. Guardò subito a sinistra, dietro la sedia, ma la pompa non era al solito posto. Maledicendo la sua pigrizia e il disordine del portiere cercò all’interno del gabbiotto. Nell’armadio, sotto il tavolino, pure nel ripostiglio delle scope. Niente. Dovette uscire e richiudersi la porta alle spalle forzando il chiavistello con un altro colpo secco uguale e contrario al primo. E per fortuna anche quella volta nessuno scese per le scale. Uscì di nuovo alla luce di maggio e lanciò un’occhiata alla bici con la ruota a terra, cercando una soluzione alternativa. Non aveva intenzione di arrendersi. Era una giornata troppo bella per tornare in casa. A fare cosa poi? Guardare la tv? Leggere? Idem con patate.
Figuriamoci mettersi a studiare. Si sentiva troppo nervoso per quello. Le parole dell’amica l’avevano scombussolato. Stava davvero così male? Eppure gli aveva raccontato che Davide cresceva magnificamente, che man mano che i genitori si affezionavano al bambino diventavano più morbidi anche nei suoi confronti. Che la stavano aiutando a crescerlo e che i suoi sensi di colpa stavano lentamente sparendo insieme al ricordo di quel bastardo di Alberto. E lui? Come stava lui? Aveva sempre considerato Silvia la sua migliore amica e si sentiva particolarmente vicino a lei e partecipe della sua vita, eppure doveva ammettere che le loro esistenze avevano preso strade diverse da quando aveva cambiato città per vivere la sua omosessualità senza più rinunce e sensi di colpa. Gli sembravano così lontani i giorni passati insieme a Silvia sui banchi di scuola a Milano. Lei era diventata mamma adesso. Lui era gay e anche volendo non avrebbe mai potuto avere un figlio suo per via della malattia. E nemmeno adottarlo. Certo erano entrambi single ma per ragioni molto diverse. Eppure secondo lei erano così simili in quella scelta di solitudine. Nel dolore di quella solitudine.