lunedì 31 gennaio 2011

Andrew (VI parte)

La sera prima di lasciare New York Michael lo portò al Palladium. Era il compleanno di Junior Vasquez e il grande dj avrebbe suonato per il suo pubblico di fan da tutto il mondo. Michael era gasatissimo e lo costrinse a buttare giù un’exstacy sul taxi, prima ancora di arrivare in discoteca. Pioveva. Erano ancora in coda alla cassa quando il ragazzo non ce la fece più e vomitò l’anima dentro un portaombrelli. Poi, come se nulla fosse, si pulì la bocca con un clinex ed entrò. Michael gli fece i complimenti per la chiccheria con cui si era liberato e gli soffiò un po’ d’aria fresca in faccia. Tra la pioggia e il sudore per la droga il ragazzo era completamente zuppo e aveva i capelli spiaccicati sulla fronte come se l’avesse leccato una mucca. Tanto che quando lo vide entrare il grosso buttadentro di colore fece l’occhiolino a Michael e chiese al ragazzo: “Are you coming from a sauna, man!?”
Il Palladium era strepitoso. Michael dovette incaricarsi del guardaroba. Il ragazzo s’era incantato ad ammirare l’enorme scalinata in vetro trasparente e i mille led luminosi dei gradini che creavano un effetto psichedelico riflessi dal soffitto a specchio. C’erano tre sale al primo piano, ma le due laterali erano state trasformate in immense darkroom dietro pesanti tende di plastica nera. Nei due corridoi che s’erano venuti a formare ai lati della pista centrale si svolgevano delle vere e proprie sfilate di moda. Drag-queen vestiti solo di piume e minigonne incedevano su vertiginosi tacchi a spillo con un’eleganza da far invidia a qualsiasi donna. Quando Vasquez mixò Vogue di Madonna accadde l’incredibile. Praticamente l’intera discoteca si bloccò e tutta la gente in pista si divise in due enormi ali di folla che si fermarono ad ammirare i catwalk improvvisati da quelle modelle in agguerrita competizione. Sguardi affilati come stilettate, espressioni altere, trucco impeccabile, portamento marziale: quei trans erano le copie in carne e ossa delle modelle di carta che il ragazzo ritagliava dalle riviste della mamma. Gli applausi della folla decidevano chi andava e chi restava dopo ogni scontro a due, finché i due vincitori si sfidarono a singolare tenzone al centro della pista. Il ragazzo era salito su per godersi meglio la scena. Al piano di sopra c’era un’altra grande sala immersa nell’oscurità e occupata per metà da un castello gonfiabile come quelle per bambini, ma dieci volte più grande. Ondeggiava di qua e di là, sussultando come durante un terremoto. Ogni tanto da un’uscita laterale veniva fuori qualcuno tutto sudato: chi a torso nudo, chi con i pantaloni e le scarpe in mano.
Il ragazzo si accostò incuriosito all’ingresso più vicino ma non riuscì a vedere niente. All’interno era tutto un intrico di tunnel scuri in cui si intravedevano ogni tanto corpi avvinghiati in strane evoluzioni.
Quando il ragazzo fece per tornare indietro si accorse con piacere che quel bel manzo con i pettorali da urlo che aveva adocchiato giù in pista era dietro di lui. C’aveva visto giusto allora. Almeno a giudicare da quel grosso bozzo che puntava dritto verso di lui, sotto i pantaloni della tuta quel tipo non doveva portare le mutande. Non ripeté l’errore fatto ad Amsterdam. Approfittando della calca e con l’alibi del tiro di key che Andrew –così si chiamava- gli aveva appena offerto, gli fece un accurato check-the-basket.

lunedì 17 gennaio 2011

Andrew (V parte)


Quando l’aereo atterrò a New York c’erano 40 gradi. Le torri gemelle tremolavano in lontananza come un miraggio nell’aria bollente che si alzava dall’asfalto molle. Un amico di un suo amico di nome Michael lo ospitò in casa sua, un appartamentino molto grazioso al terzo piano a piedi di un palazzo paurosamente inclinato sulla 52esima strada, all’incrocio con la 1st Avenue. La stanza degli ospiti era piccola ma accogliente, con il parquet consunto e un bel caminetto in disuso dove il ragazzo mise la valigia perché non c’era l’armadio. Ma il letto era ok e la finestra luminosa, sebbene fosse incastrata e non si aprisse da almeno un secolo. Michael lavorava in una galleria a Chelsea. Tornava a casa tardi e si addormentava completamente vestito sul letto che non cambiava mai. La sveglia suonava alle otto precise e spesso si dava solo una sciacquata alla faccia e si ripresentava in ufficio con gli stessi panni addosso. Aveva un “fuck-buddy” di cui era perdutamente innamorato che lo chiamava nel cuore della notte per scopare. Lui si alzava immediatamente, controllava di avere ancora un po’ di coca nella bustina e lo raggiungeva in taxi. 
Il salottino era l’unica stanza della casa pulita e dignitosa con due poltroncine decò e un divanetto di modernariato con la tappezzeria strappata –il gatto di Michael era morto da poco- e grandi stampe di fotografi famosi o emergenti incorniciate in moderni frame d’acciaio satinato. Sopra il camino – perfettamente funzionante come ci tenne a precisare Michael quando lo indicò al ragazzo- c’era una foto in bianco e nero di un metro per un metro che gli fece subito pensare a Luca. Mostrava il collo di un uomo che si era appena rasato, solcato da una lunga striscia di sangue che partiva da sotto il mento e gocciolava sul colletto immacolato della camicia. La cucina era il regno degli scarafaggi. Al ragazzo facevano letteralmente schifo. Quando si alzava di notte tutto sudato per andare a bere un bicchiere d’acqua fredda li avvisava prima, accendendo la luce del salottino, in modo da dare loro il tempo di nascondersi di nuovo dietro al frigo. Non entrò mai in cucina per mangiare. Quando la luce del sole diventava insopportabile –non c’erano tende alla finestra- si faceva una doccia e si gettava alla scoperta della grande mela. Per prima cosa andava a fare colazione. Si sedeva al tavolino del primo bar all’aperto in cui ci fosse un cameriere belloccio e dichiaratamente gay ad attenderlo. Ordinava pancakes con sciroppo d’acero e caffè americano, e si godeva la vista della gente che passava. Il suo preferito era il bar di fronte la David Burton’s Gym di Chelsea, la palestra più gay del quartiere dei gay più balestrati di New York. Quell'andirivieni di canotte strette, calzoncini corti e pacchi gonfi era un piacere per gli occhi. Vedendo quel giovane italiano tutto solo molti gay si fermavano per dargli il benvenuto con le loro vocine stridule e spesso e volentieri lo invitavano a un party per quella sera stessa o per il week-end. Dopo il breakfast il ragazzo andava a correre un po’ a Central Park e quando il caldo si faceva insopportabile entrava da Fao Swartz sulla Fifth Avenue. Quella era una tappa obbligata. Non faceva nulla se prima non consultava la palla numero 8. La trovava sempre lì ad aspettarlo: sul banco d’esposizione centrale, di fronte alle casse, proprio in mezzo alle zampe divaricate dell’orsacchiotto gigante simbolo del negozio. Il suo sguardo di bottone e la sua espressione serena stampata sulla faccia pelosa con quella curva cucita in un eterno sorriso muto era un oracolo perfetto che prometteva solo notizie positive per il ragazzo. O almeno così si sforzava di credere lui, quando agitava la palla nera dopo aver espresso mentalmente il suo desiderio del giorno.
“Yes, absolutely”… “Take care”… “Wait”… erano immancabilmente le risposte sibilline dell’oracolo. Ma il ragazzo sapeva trovargli sempre una giustificazione. Aveva fatto amicizia col commesso, un ragazzotto cogli occhiali e i polpacci grossi e un’incipiente stempiatura. Del tipo “cripto-gay” o gay intellettuale che al ragazzo non era mai piaciuto, ma con cui scambiava ogni tanto qualche battuta: più per praticare il suo inglese che per altro. I giorni passavano così, serenamente. Senza meta e senza tempo. Ma anche senza alcun incontro degno di nota. In fondo la grande mela non aveva il sapore intenso che si aspettava. Gli aveva dato un morso e presto l’avrebbe abbandonata senza grandi rimpianti, dovette ammettere.