lunedì 17 gennaio 2011

Andrew (V parte)


Quando l’aereo atterrò a New York c’erano 40 gradi. Le torri gemelle tremolavano in lontananza come un miraggio nell’aria bollente che si alzava dall’asfalto molle. Un amico di un suo amico di nome Michael lo ospitò in casa sua, un appartamentino molto grazioso al terzo piano a piedi di un palazzo paurosamente inclinato sulla 52esima strada, all’incrocio con la 1st Avenue. La stanza degli ospiti era piccola ma accogliente, con il parquet consunto e un bel caminetto in disuso dove il ragazzo mise la valigia perché non c’era l’armadio. Ma il letto era ok e la finestra luminosa, sebbene fosse incastrata e non si aprisse da almeno un secolo. Michael lavorava in una galleria a Chelsea. Tornava a casa tardi e si addormentava completamente vestito sul letto che non cambiava mai. La sveglia suonava alle otto precise e spesso si dava solo una sciacquata alla faccia e si ripresentava in ufficio con gli stessi panni addosso. Aveva un “fuck-buddy” di cui era perdutamente innamorato che lo chiamava nel cuore della notte per scopare. Lui si alzava immediatamente, controllava di avere ancora un po’ di coca nella bustina e lo raggiungeva in taxi. 
Il salottino era l’unica stanza della casa pulita e dignitosa con due poltroncine decò e un divanetto di modernariato con la tappezzeria strappata –il gatto di Michael era morto da poco- e grandi stampe di fotografi famosi o emergenti incorniciate in moderni frame d’acciaio satinato. Sopra il camino – perfettamente funzionante come ci tenne a precisare Michael quando lo indicò al ragazzo- c’era una foto in bianco e nero di un metro per un metro che gli fece subito pensare a Luca. Mostrava il collo di un uomo che si era appena rasato, solcato da una lunga striscia di sangue che partiva da sotto il mento e gocciolava sul colletto immacolato della camicia. La cucina era il regno degli scarafaggi. Al ragazzo facevano letteralmente schifo. Quando si alzava di notte tutto sudato per andare a bere un bicchiere d’acqua fredda li avvisava prima, accendendo la luce del salottino, in modo da dare loro il tempo di nascondersi di nuovo dietro al frigo. Non entrò mai in cucina per mangiare. Quando la luce del sole diventava insopportabile –non c’erano tende alla finestra- si faceva una doccia e si gettava alla scoperta della grande mela. Per prima cosa andava a fare colazione. Si sedeva al tavolino del primo bar all’aperto in cui ci fosse un cameriere belloccio e dichiaratamente gay ad attenderlo. Ordinava pancakes con sciroppo d’acero e caffè americano, e si godeva la vista della gente che passava. Il suo preferito era il bar di fronte la David Burton’s Gym di Chelsea, la palestra più gay del quartiere dei gay più balestrati di New York. Quell'andirivieni di canotte strette, calzoncini corti e pacchi gonfi era un piacere per gli occhi. Vedendo quel giovane italiano tutto solo molti gay si fermavano per dargli il benvenuto con le loro vocine stridule e spesso e volentieri lo invitavano a un party per quella sera stessa o per il week-end. Dopo il breakfast il ragazzo andava a correre un po’ a Central Park e quando il caldo si faceva insopportabile entrava da Fao Swartz sulla Fifth Avenue. Quella era una tappa obbligata. Non faceva nulla se prima non consultava la palla numero 8. La trovava sempre lì ad aspettarlo: sul banco d’esposizione centrale, di fronte alle casse, proprio in mezzo alle zampe divaricate dell’orsacchiotto gigante simbolo del negozio. Il suo sguardo di bottone e la sua espressione serena stampata sulla faccia pelosa con quella curva cucita in un eterno sorriso muto era un oracolo perfetto che prometteva solo notizie positive per il ragazzo. O almeno così si sforzava di credere lui, quando agitava la palla nera dopo aver espresso mentalmente il suo desiderio del giorno.
“Yes, absolutely”… “Take care”… “Wait”… erano immancabilmente le risposte sibilline dell’oracolo. Ma il ragazzo sapeva trovargli sempre una giustificazione. Aveva fatto amicizia col commesso, un ragazzotto cogli occhiali e i polpacci grossi e un’incipiente stempiatura. Del tipo “cripto-gay” o gay intellettuale che al ragazzo non era mai piaciuto, ma con cui scambiava ogni tanto qualche battuta: più per praticare il suo inglese che per altro. I giorni passavano così, serenamente. Senza meta e senza tempo. Ma anche senza alcun incontro degno di nota. In fondo la grande mela non aveva il sapore intenso che si aspettava. Gli aveva dato un morso e presto l’avrebbe abbandonata senza grandi rimpianti, dovette ammettere.

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