mercoledì 28 aprile 2010

Goldie (VI parte)

Ci sono amori da vivere e amori da scrivere. Quello con Goldie terminò così:
“Con affetto. Un godurioso uccello di bosco sessualmente insoddisfatto.”
In quella lettera il ragazzo scrisse che non l’amava più. Gli confessò le dimensioni insufficienti del suo sesso, il suo stucchevole modo di fare l’amore, tanto più insopportabile quanto più tentava di eccitarlo. Gli disse che chiamarlo con tutti quei fottuti vezzeggiativi non glielo faceva venire duro. Gli faceva venire il diabete.
Doveva ammetterlo: era stato insensibile, brutale e sbrigativo. Ma era tempo di riprendersi la sua libertà e la gioia del sesso matto e gioioso che aveva chiuso fuori la porta quando aveva incontrato lui. E così fece. O almeno così credeva. In realtà da quando la storia con l’olandese era finita il ragazzo passava tutto il giorno in casa. Per lo più la sera leggeva o si rincoglioniva sul divano davanti alla tv. Si sentiva così stanco. Stanco di vivere. Stanco di sognare. Stanco di sperare. Stanco soprattutto di aspettare l’esito di quello stramaledetto test. 
“Esco. Me ne vado via di qua. Ora, subito. Volo.
E sono in strada. Persone piccole come formiche. Auto luccicanti come gocce di rugiada alle prime luci del mattino. Mi spremo le meningi per trovare una qualche via d’uscita. Adesso plano, sostenuto da lievi carezze d’aria calda, purissima. Capriolo a testa in giù: tutto è ancora più incredibile. Dove vado? Lontano. Via dallo sferragliare inutile del mio cervello arrugginito, via da pensieri che si attorcigliano in circoli viziosi come serpenti. Lontano dalla battaglia di nervi che sono costretto a combattere ogni giorno. Remo contro me stesso, contro il mio cervello che chissà come trova ancora la forza di imporsi sulla mia vera natura per far-mi sopportare. Contro il mio cuore che cuce e ricuce antiche ferite e vecchi graffi, piccole falle e grandi emorragie.”
  
Capita. Pensi di raccontare una storia e invece è lei che parla di te. Ti scrive e ti riscrive, riformattandoti come un floppy disk. Modifica la memoria selezionando i ricordi, rimuovendone alcuni e creandone di nuovi, pensò il ragazzo sollevando un attimo la penna dal foglio, indeciso su come proseguire. Si rifugiava sempre più spesso allo scrittoio per mettere nero su bianco i suoi pensieri, i sogni, le fantasie e le sensazioni del momento. Ne scaturivano strane lettere a un destinatario apparentemente ignoto, ma che lentamente si palesava. E alla fine appariva ovvio che non poteva essere che quello, come se fosse stato tutto chiaro dall’inizio. Tutto già scritto, appunto. Di solito il ragazzo strappava o bruciava quelle pagine, terrorizzato da quel fenomeno paranormale. Ma quella volta prese il coraggio a due mani e in fondo alla lettera scrisse: 



“Sono stanco di vivere Silvia. Vieni, ti prego.” 

Poi si gettò sul letto e cadde in un sonno senza sogni.

Silvia conosceva bene quel letto dove il ragazzo aveva sognato di trascorrere la vita insieme all’olandese e quel comodino dove al posto del ritratto di Goldie ora c’era la foto di un gruppo di froci. In quella stanza Silvia si era sorbita il pianto da coccodrillo del ragazzo, i suoi capricci infantili, le invidie meschine dei suoi nuovi amici dell’ambiente gay. L’aveva aiutato anche a inchiodare quella foto che lo ritraeva coi capelli decolorati a Mykonos, in mezzo a quelle quattro checche e con quel ridicolo costume intero giallo e nero di Armani che lei detestava. Il vecchio muro di mattoni aveva resistito ai bicipiti palestrati del ragazzo ma non alla sua mammità.
Si era fiondata a Roma immediatamente dopo aver ricevuto la richiesta d’aiuto dell’amico. Se n’era andata la mattina seguente sotto la pioggia, dopo una notte insonne passata a fumare insieme a lui tutte le sigarette che aveva, ad accarezzargli la testa che scottava per la febbre, ad arieggiare la stanza e sprimacciare i cuscini ogni volta che il ragazzo si alzava per andare in bagno a vomitare. Gli aveva lasciato la colazione pronta e una lettera vicino al cartoccio con le brioches alla marmellata e se n’era andata via sotto la pioggia. Via come una ladra dalla città che le aveva rubato un amico. Il suo migliore amico.
Quante volte gli aveva detto di stare attento? pensò il ragazzo sedendosi al tavolo in cucina. E aprì la busta.
“Amico mio, me ne vado via piangendo da questa città che piange insieme a me.
Ti voglio bene come un fratello e voglio che tu abbia la certezza di poter contare sempre su di me. Per te ci sarò sempre, quando mi cercherai. Così come sparirò, se tu lo vorrai. Stanotte mi hai affidato un segreto che pesa sul mio cuore come un macigno. Un grande macigno che da ancora più peso al dono che mi hai fatto. Un dono grande, perché mi ha aiutato ad apprezzare la vita. Chissà come ti sarò sembrata ingrata ultimamente, chissà come ti saranno suonate ridicole le mie velleità e i mie capricci. Cosa sono tutti i miei problemi in confronto ai tuoi? Ci ho riflettuto tanto. Voglio che inizi un periodo nuovo per me. Cercherò il lato positivo della cose, ci metterò l’anima come mi hai insegnato tu. Però promettimi che non mollerai, che ti prenderai cura di te stesso. La vita ha ancora tanto da darti. Davide e io abbiamo troppo bisogno di te. Con tutto il bene che posso.
Silvia”

martedì 27 aprile 2010

Goldie (V parte)

Poi fu la volta di Goldie: pelle colore ebano, occhi verde-azzurri a seconda del tempo e dell’umore e un cuore grande come il mare. L’oceano di Aruba, l’isola dei Carabi dove era nato suo padre -solo che lui era olandese e col padre non parlava più da anni-. L’aveva conosciuto così, per scommessa, in un locale ad Amsterdam. La sera prima di volare a Parigi dal suo boyfriend francese e poi via alla volta di Rio con il suo amico del cuore. Erano gli anni ‘90. Giornate intense e memorabili da una notte e via. Niente di personale. Così girava il mondo. C’erano tanti posti da scoprire, tante persone da conoscere, tante emozioni da vivere, tante cose da fare. E via andare. “So many fishes, so little time” cantava una canzone.
Regulierwaatstrasse, discoteca Exit, interno notte. Eccolo là: un metro e ottantotto di muscoli guizzanti in mousse di cioccolato fondente. Ballava come un dio al centro della pista, con tutti gli occhi puntati su di lui. Il ragazzo gli si parò davanti spalancando il suo famoso sorriso a passo uno. Lentamente, un millimetro di labbra dopo l’altro, fino a far brillare le sue 32 perle sotto le luci delle strobo. E quando finalmente alzò gli occhi su di lui, Goldie era già suo. Un occhiolino all’amico del cuore e il ragazzo si portò a casa il primo premio. S’innamorò subito di quei suoi modi gentili, del suo sguardo amorevole, della sua capacità di ascoltare davvero e della voglia di farlo sentire a casa, anche se quello era l’appartamento che si era fatto prestare da un’amica. Anche lei era partita per il Brasile quella notte e gli aveva lasciato il suo mini appartamento in centro, vicino alla discoteca. Poi dicono che le cose succedono per caso. Chi se la scordava quella casa. Luci soffuse e musica soft. In quello scannatoio il ragazzo si sentiva in paradiso. Furono carezze, baci e farfalle nello stomaco. Finché non arrivò Roberto, l’amico del dio d’ebano, e dovettero fare finta di dormire. Rimasero lì abbracciati senza riuscire a chiudere occhio fino alla mattina. Il ragazzo sapeva di aver trovato l’amore della sua vita. Un ragazzo d’oro. Perciò lo chiamò Goldie. Era bello. Troppo bello per essere vero. Il ragazzo era completamente in suo potere. Innamorato cotto. Praticamente fottuto. 
Avrebbe dovuto fare il “check-the-basket” di rito in discoteca, ma era troppo giovane e troppo inesperto allora. Era così innamorato che non aveva avuto il coraggio di toccarlo lì neanche a letto. Gli bastava crogiolarsi nel suo abbraccio fondente. Anzi pregò Dio che l’olandese non avesse un salame di cioccolata grosso come quello del boyfriend di colore che lo aspettava a Parigi. Non che il ragazzo disdegnasse i cazzi grossi. Ma era alle prime armi e temeva che l’olandese l’avrebbe aperto in due come una cozza. Ma sfortunatamente fu esaudito: invece di un salame di cioccolata l’olandese c’aveva un tic-tac tra le cosce. E più che ciucciarlo non si poteva fare.

mercoledì 14 aprile 2010

Goldie (IV parte)

Mentre lasciava la stazione guardandosi le scarpe per evitare le occhiate sfacciate dei marchettari e gli sguardi pietosi dei barboni, il ragazzo sentì che anche lui come Silvia era stato derubato dell’idea dell’amore.

La prima volta fu all’Angelo Azzurro. Erano tre sabati che provava a entrare in quel locale. Gli era bastato seguire la scia di profumo di due checche che sculettavano su viale Trastevere all’uscita del cinema Reale per capire che andavano a ballare lì. Ma ogni volta che il buttafuori, colpito dal suo bel faccino pulito, gli chiedeva se sapeva che quello era un locale di tendenza, il ragazzo faceva finta di stupirsi e se ne tornava a casa. Quel sabato però era deciso a entrare. Capelli ingelatinati, jeans attillati, lupetto rosso e catenina d’oro fuori. Si era vestito da vero tamarro, come si portava all’epoca, un po’ per farsi coraggio, un po’ per confondersi con la fauna sguaiata ed eccessiva che frequentava il locale.
Si guardò le scarpe quasi tutto il tempo. Finché il bagliore di quegli occhi verdi e il bianco fluorescente di quel sorriso sotto le strobo della discoteca non lo costrinsero a guardare verso quell’uomo agile ed elegante che sorrideva sempre mentre ballava con gli amici. Quando Alexander-per-gli-amici-Alex gli offrì da bere e gli disse come si chiamava col suo dolcissimo accento francese, quella erre mezza strascicata lo rassicurò un poco. Il ragazzo prese una coca e rum, giusto per non fare la figura del lattante di fronte a quel tipo più basso di lui, ma sicuramente più vecchio. Alex gli fece i complimenti per la catenina d’oro e quando il ragazzo rosso in viso come il suo lupetto gli disse con un filo di voce che c’era scritto il suo nome in geroglifico, l’uomo capì che se non si fosse inventato subito qualcosa quel ragazzo impaurito sarebbe scappato via. Così gli propose di andare a prendere una boccata d’aria. Il ragazzo acconsentì volentieri e mentre uscivano dal locale e s’infilavano nell’auto di Alex sentì gli occhi di tutta la discoteca puntati sulla sua schiena. E chi se la scorda quella squalo! Una Citroen verde bottiglia, lunga una quaresima che quando si scaldava si sollevava dieci centimetri da terra, e allora voleva dire che potevi partire.
Alex non lo toccò con un dito per il primo mese. Andava a prendere il ragazzo sotto casa, lo faceva sedere in macchina e rispondeva a tutte le sue domande sui gay e l’omosessualità, le discoteche, Mykonos, Ibiza, l’ecstasy e la cocaina, i preservativi e tutto il resto finché non si faceva tardi e non gli restava che riportarlo a casa e andare a dormire ad Anguillara perché il giorno dopo doveva tornare a Roma a lavorare.
Poi una sera il ragazzo invitò Alex a salire. Non era la prima volta che il ragazzo dava un bacio, ma era la prima volta che baciava un uomo. E svenne, letteralmente. Quando si riprese si ritrovò nell’ambulanza con Alex che lo guardava con i suoi occhioni verdi e gli teneva la mano. L’ultimo ricordo che aveva di Alex però erano i suoi occhi rossi di pianto quando era stato costretto a lasciarlo dopo la famosa telefonata dell’allenatore. E una cassetta con una musica classica di sottofondo e la sua voce registrata che spiegava ai suoi genitori che loro due non avevano fatto mai niente di male: andavano al cinema, ascoltavano musica in macchina, andavano a cavallo e qualche volta a mangiare al ristorante di un amico sulle rive del lago di Anguillara. Erano solo un uomo e un ragazzo che si amavano.

martedì 13 aprile 2010

Goldie (III parte)

Il sesso per lui avrebbe conservato sempre il sapore e l’odore di quel posto.
Lo stesso odore di sudore e urina appiccicata sotto la suola degli anfibi a carrarmato. Lo stesso sapore di sborra incollata alle pareti fredde delle darkroom. Perché il sesso non è amore. Non è una cosa da condividere. Non è un progetto in comune. Non è crescere insieme. E’ tutto quello che non sei di giorno. Quello che non vorresti venga fatto a te, ma che non puoi fare a meno di fare. E di rifare. Come un buco nero che ti attrae. Ossessivamente. Inesorabilmente. Irresistibilmente.
E ogni volta che quel desiderio tornava a torturarlo, a chiamarlo, a comandarlo, lui non poteva far altro che obbedire. Allora un irrefrenabile tremore s’impadroniva del suo corpo come una febbre che lo divorava dall’interno e lo faceva sudare come quelle sue febbri da bambino, solo che invece di farlo crescere questa lo faceva precipitare in un abisso di bassezza. Era come se l’anima sua si raggrinzisse tutta finché la luce e il calore del bene non lasciavano il posto alla notte della ragione. Al nero del male in persona. Allora la sua natura di animale notturno riemergeva dalle tenebre dell’inconscio in cui era stata ricacciata a forza di preghiere e di candele accese sull’altare dell’Amore. E si impossessava di lui. I suoi sensi si acuivano come quelli di un cacciatore in cerca della sua preda e si abbandonava a un’orgia di sesso disperato, animalesco e senza confini finché non faceva giorno. Le prime volte il ragazzo doveva fumarsi un pacchetto intero di sigarette per farsi passare quel tremore e disinibirsi abbastanza per abbordare qualcuno, uno a caso. Subito cercava le sue labbra. Le preferiva morbide e carnose, più rosse che rosa; turgide e circondate di peli ispidi, come una promessa del sesso che nascondevano più sotto. Si abbeverava al fiume di saliva che quegli omoni pelosi sputavano sulla bocca e sui lineamenti gentili del suo viso da bravo ragazzo. Quell’atto di estrema sottomissione gli procurava  un piacere enorme e gli faceva tornare in mente quella curandera brasiliana che gli aveva insegnato che la lingua è l’organo più impuro dell’uomo, quello preposto a dare e ricevere il maggior godimento fisico. Negli incontri occasionali consumati al buio, nei bassifondi e nelle latrine che amava frequentare durante i suoi incontrollabili accessi di libido s’era convinto che il gioco di ruolo tra vittima e carnefice fosse alla base di un rapporto sessuale davvero appagante. Ma nonostante cercasse di negarlo anche a se stesso, era la dolcezza e la comprensione che cercava negli altri. La pienezza di un abbraccio che sapesse placare la sua sete d’amore e d’accoglienza. In tutti gli uomini che incontrava percepiva quel misto di orgoglio, furore, disperazione e autoindulgenza che riconosceva a pelle in tutte le minoranze ghetizzate, neglette e perseguitate della Terra, ma che razionalmente rifiutava. Avendo fatto della bellezza e della giovinezza la sua estrema ragione di vita, rifuggiva l’immagine stessa della sofferenza. Trovava assurda l’idea di chi -sentendosi diverso dagli altri e dunque indegno di vivere come loro- vedeva nel tormento l’unica via possibile per raggiungere l’estasi. La sua gioia di vivere e la sua innata curiosità gli avevano guadagnato il favore di tutti gli uomini che aveva incontrato. I più belli, ricchi e potenti. Tutti quelli che aveva voluto e che gli avevano voluto bene, per non dire amato. In fondo gay non voleva dire gaio? si ripeteva sempre, anche se si sentiva più incline alla mestizia che all’allegria. 
Nei suoi rari momenti di grazia, quando era al colmo della gioia, il ragazzo aveva la sensazione di toccare il cielo con un dito. Ma quanto più saliva in alto tanto più presagiva il baratro dell’inevitabile caduta. E quasi senza accorgersene, come se volesse in qualche modo limitare il dolore e l’umiliazione della sua rovina, inconsciamente l’anticipava.
Cosa stava facendo della sua vita? Uomini, uomini, uomini. Sembrava che volesse solo incontrarne il più possibile e stabilire un contatto. Un giorno, una notte, un’ora cosa importa? Ci si legava come un piccolo Spiderman ogni volta che veniva, lanciando a destra e a manca piccole ragnatele appiccicose e trasparenti per tessere la sua rete invisibile di connessioni. O era una rete di salvataggio? Nel frattempo le sue acrobazie amorose si facevano sempre più ardite. Non aspettava neppure di finire un incontro che già ne aveva organizzato un altro. Al telefono, via sms, su internet. Lanciava ami in tutte le direzioni. E qualcuno abboccava sempre. Ma più ne beccava meno gli bastava. Ogni limonata, ogni pompino, ogni scopata non facevano che aumentare la sua sete di carezze. Quello che voleva davvero in fondo era un abbraccio, l’espressione più sincera del perdono. Nelle sue rare notti solitarie si esercitava a visualizzare i volti di tutte le persone che avevano contato qualcosa per lui, come gli aveva insegnato la curandera. Ma passandoli in rassegna uno a uno doveva ammettere che il grande amore non c’era.

giovedì 8 aprile 2010

Goldie (II parte)

Il ragazzo fece giusto in tempo a finire di leggere la lettera che la voce gracchiante all’altoparlante e l’acre odore d’urina dei bagni pubblici gli comunicarono che il treno stava arrivando al binario uno della stazione Termini di Roma, il più vicino ai bagni pubblici.
In quella settimana passata tra profumo di salviette rinfrescanti, borotalco e olio idratante per neonati s’era completamente dimenticato l’odore di quel luogo e delle persone che lo frequentavano. Era lì che andava in cerca delle sue avventure di giorno, quando non le trovava di notte. L’articolo di giornale che aveva letto in treno diceva che tra tutti i nostri sensi l’olfatto è quello che si è evoluto meno rispetto agli animali ma proprio per questo è ancora così acuto. Il canale olfattivo attraverso cui vengono percepiti e riconosciuti gli odori, nonostante si sia accorciato nell’evoluzione della specie è ancora molto lungo. Più profondo del canale auricolare o del cavo orale. Il gusto stesso è dovuto all’80% all’olfatto ed è per questo che quando abbiamo il raffreddore non sentiamo il sapore dei cibi. L’autore dell’articolo sosteneva che un profumo può riportare alla mente ricordi antichissimi che sembravano dimenticati o rimossi dalla memoria cosciente, ed è addirittura capace di risvegliare una persona dal coma. Il ragazzo chiuse gli occhi. L’odore di urina gli ricordò il soppigno nella vecchia casa dei suoi. Lo chiamava così sua nonna in dialetto lucano, il soppalco collegato alla cucina dalla lunga scala in legno verniciato di bianco che serviva da ripostiglio per le valigie, le mensole dismesse, l’albero e gli addobbi di Natale e le altre mille cianfrusaglie accumulate negli anni da tutta la famiglia. Faceva un caldo infernale là sopra perché c’erano i tubi della caldaia a gas ed era molto basso. Per questo ci mandavano sempre lui che era il più piccolo a prendere le bottiglie quando finiva il vino rosso, perché era agile e ci stava dritto in piedi senza battere la testa. Quando si fece grande ci mandarono la cameriera e per un po’ il ragazzo lo dimenticò. Ci tornò molto tempo dopo, una domenica, all’età di circa quattordici anni. Si annoiava a morte quel giorno. Dopo pranzo la casa era piombata nel più pesante dei silenzi. Suo padre e suo fratello erano allo stadio, la nonna era in camera che pregava e la mamma faceva il suo beauty sleep pomeridiano. Il ragazzo salì sul soppigno in cerca di qualcosa da fare. In fondo, dove il calore dei tubi della caldaia si faceva insopportabile, nella cassetta con i vuoti del vino e delle conserve di pomodoro, proprio sotto i peperoni lucani cruschenti che la nonna appendeva ad essiccare, trovò un rotolo di spago. Se lo arrotolò attorno alla vita, sotto la maglietta e strinse forte trattenendo il fiato. Il dolore lo faceva sentire vivo. La pelle intorno alla vita si stava segnando di profondi solchi rossi. Lui ci passò la mano e li seguì su e giù a spirale finché non sentì uno strano formicolio farsi strada in basso dentro di lui. 
Tirò su la maglietta, si calò i pantaloni e con sorpresa vide il cazzo gonfiarsi negli sleep. Era incredibilmente eccitato. Se lo strinse tra le mani e si masturbò furiosamente per la prima volta in vita sua. A un certo punto sentì uno stimolo irresistibile come quello di pisciare e non sapendo dove farla, prese una bottiglia e la riempì di uno strano liquido vischioso. Respirava a fatica, vuoi per lo spago che ora cominciava a fargli male davvero, vuoi per la temperatura e l’eccitazione. Non si vedeva niente lì dentro. Cercò l’interruttore e accese la luce. Sollevò la bottiglia e la guardò in trasparenza alla luce della lampadina impolverata che pendeva davanti a lui, a pochi centimetri dal suo naso.

martedì 6 aprile 2010

Goldie (I parte)

Da quando il ragazzo si era trasferito a Roma per l’università, i rapporti con Silvia si erano molto diradati. Era andato a trovarla a Milano per la nascita di Davide e aveva provato per tutto il giorno il desiderio di avere un figlio pure lui, ma ora di sera l’aveva già rimosso e non ci aveva più pensato. Ora Silvia viveva di nuovo con i suoi nella vecchia cameretta che era rimasta tale e quale a come se la ricordava lui. Con un solo letto a una piazza e mezzo in cui erano costretti a dormire capo e piedi, come quando si fermava da lei ai tempi del liceo.
Silvia non gli aveva mai voluto rivelare chi era il padre di Davide.
“Non ne vale la pena”, aveva detto semplicemente. Aveva deciso comunque di portare avanti la gravidanza da sola, contro tutto e contro tutti, con quella incrollabile determinazione che contraddistingueva ogni sua azione. Il ragazzo le aveva detto sempre di guardare solo nella sua corsia -nella vita come nello sport- e ora non poteva certo essere lui a farle cambiare idea. D’altra parte ora era più bella che mai. L’aveva soprannominata “la mammità”. Quando la vedeva col bambino in braccio il ragazzo si inginocchiava a mani giunte e faceva finta di spargere petali di rose al suo cospetto, come ai piedi di una dea. Con la montata lattea il seno di Silvia, già generoso di suo, era diventato mostruosamente grande. Il ragazzo doveva ammettere che lo metteva un po’ a disagio, tanto che aveva sempre una scusa buona per sparire quando arrivava l’ora della poppata.
Sul treno di ritorno per Roma, dopo una settimana di carezze, ninne nanne, veglie e sonni agitati in cui disse definitivamente addio all’idea di avere un figlio, mentre cercava gli occhiali da lettura nella tasca del cappotto trovò la sua lettera.

“Vecchio Barbagianni,
ti sei addirittura dimenticato gli occhiali nel bagno ieri sera. Certe cose fanno un po’ tenerezza, specialmente se sembrano abitudini, di quelle che si prendono in casa e poi te le porti dietro per tutta la vita. Come stai? Abbiamo dormito nello stesso letto per una settimana intera, ma non me l’hai mai detto. E’ da un po’ che me  lo chiedo, visto che da quando vivi nella Capitale non ho più davanti la tua faccia tutto il santo giorno (il panorama è in netto miglioramento da questo punto di vista : ) però ci vediamo poco e parliamo ancora meno. Mentre aspettavo Davide ho avuto molto tempo per pensare e ho sentito la mancanza dei vecchi tempi (sì anche delle interrogazioni programmate di matematica e fisica!!). Me la fai passare quando fai il capriccioso, però quando sei come sei mi manchi molto. Forse dovremmo cominciare a scriverci come i comuni mortali.
No, non quegli stupidi messaggi via mail o sms, ma delle belle lettere come questa:
“in concreto” come dici tu e con un po’ di profumo spruzzato sopra. Così poi uno le prende e ci si struscia contro un po’. Sono molto spaventata da questa nuova condizione. Ho paura che le cose non vadano a dovere come dico io. Non mi fido molto della mia “mammità” e non me ne vergogno neanche tanto. Per il resto, la mia nuova situazione abitativa con mio padre si sta rivelando meno complicata del previsto, anzi riesco a discutere e a far valere le mie idee nel limite del possibile con un ex carabiniere e forse l’orco non è poi così cattivo come lo si dipinge. Il rapporto con mia madre procede con alti e bassi, solo che per via della mia sfavorevole congiuntura economica sono soggetta a rigidissimi controlli, per cui si contano anche i dieci centesimi che ho in tasca. Così non sono molto tranquilla. La mia vita affettiva resta una grande incognita. Ho sempre pensato di essere una brava bambina, una di quelle che “mai e poi mai”, che lei “certo no di sicuro” e invece eccomi qui con Davide. Quando lo guardo dormire -non sono tante le volte che riesco a farlo, come avrai notato- mi accorgo che il divario tra ciò che si vuole e ciò che si ha certe volte è così grande che ti fa una rabbia e ti fa venir voglia di saltare il fosso a piè pari. Così ho messo Umberto nel congelatore –ecco, adesso sai pure come si chiama il padre- l’altra sera. Eravamo andati tu e io soli a cena alla trattoria Toscana, ricordi? Ti ho detto che andavo in bagno e l’ho chiamato. Perché io non sono capace di far stare male qualcuno. Mi ricordo sempre come si sta male quando non sai perché l’altro ce l’ha su con te, perché non ti chiama, perché ti racconta solo storie. Perché cerca la lite, in poche parole. Io non credo di essere così misera. Così gli ho detto che nutro del risentimento nei suoi confronti, che non mi è andata giù come si è comportato con Davide, perché non l’ha riconosciuto, che stanno saltando fuori vecchie acredini, vecchie umiliazioni e vecchi rancori. Che tutto questo fa sì che io non voglia incontrarlo, non voglia uscire con lui, insomma non voglia più vederlo. Perché vedere la sua bella faccia sorridente, sentire la sua bella voce calma, conciliante e persino affettuosa mi fa incazzare. Mi sa di abitudine, di routine –e tu sai quanto odio la routine- di stanchezza mentale. Quando esco con lui mi lascio dietro una scia di bava appiccicosa e densa come le lumache. (Niente battute volgari e poche smorfie, che ti vedo) Quella bava si chiama rabbia.
Mi hai chiesto se mi sento fiera di crescere un figlio da sola. Magari non sono fiera, ma sono contenta così. Quello che ho imparato da Davide, alla faccia delle lezioni di morale di mamma e papà, è che il confine tra il bene e il male è così labile, così impalpabile da assumere il significato che gli dai tu. Mi sento molto derubata dall’idea dell’amore. L’amore era quella cosa che faceva le persone uguali ma diverse, simili ma opposte, unite ma separate. L’amore, quello che ci raccontavamo sull’erba al parco guardando le nuvole volare alte nel cielo come i nostri desideri, era quella straordinaria contraddizione che riempiva le pagine dei nostri diari. Te lo ricordi? L’amore era fatto di carne e sangue, e non di parole. Devo ancora trovarlo uno che la pensi così. Eppure so che esiste. Perché noi due siamo così. E finché ci saranno un uomo e una donna come noi, nel mondo ci sarà speranza. Per questo auguro ancora a tutti e due di trovare l’anima gemella. Ancora e sempre.

P.S. Volevo infilarti questa lettera nel portafogli ma ho trovato un preservativo con un nome e un numero di telefono. Per favore stai attento e abbi cura di te.
Tua Silvia.”