mercoledì 14 aprile 2010

Goldie (IV parte)

Mentre lasciava la stazione guardandosi le scarpe per evitare le occhiate sfacciate dei marchettari e gli sguardi pietosi dei barboni, il ragazzo sentì che anche lui come Silvia era stato derubato dell’idea dell’amore.

La prima volta fu all’Angelo Azzurro. Erano tre sabati che provava a entrare in quel locale. Gli era bastato seguire la scia di profumo di due checche che sculettavano su viale Trastevere all’uscita del cinema Reale per capire che andavano a ballare lì. Ma ogni volta che il buttafuori, colpito dal suo bel faccino pulito, gli chiedeva se sapeva che quello era un locale di tendenza, il ragazzo faceva finta di stupirsi e se ne tornava a casa. Quel sabato però era deciso a entrare. Capelli ingelatinati, jeans attillati, lupetto rosso e catenina d’oro fuori. Si era vestito da vero tamarro, come si portava all’epoca, un po’ per farsi coraggio, un po’ per confondersi con la fauna sguaiata ed eccessiva che frequentava il locale.
Si guardò le scarpe quasi tutto il tempo. Finché il bagliore di quegli occhi verdi e il bianco fluorescente di quel sorriso sotto le strobo della discoteca non lo costrinsero a guardare verso quell’uomo agile ed elegante che sorrideva sempre mentre ballava con gli amici. Quando Alexander-per-gli-amici-Alex gli offrì da bere e gli disse come si chiamava col suo dolcissimo accento francese, quella erre mezza strascicata lo rassicurò un poco. Il ragazzo prese una coca e rum, giusto per non fare la figura del lattante di fronte a quel tipo più basso di lui, ma sicuramente più vecchio. Alex gli fece i complimenti per la catenina d’oro e quando il ragazzo rosso in viso come il suo lupetto gli disse con un filo di voce che c’era scritto il suo nome in geroglifico, l’uomo capì che se non si fosse inventato subito qualcosa quel ragazzo impaurito sarebbe scappato via. Così gli propose di andare a prendere una boccata d’aria. Il ragazzo acconsentì volentieri e mentre uscivano dal locale e s’infilavano nell’auto di Alex sentì gli occhi di tutta la discoteca puntati sulla sua schiena. E chi se la scorda quella squalo! Una Citroen verde bottiglia, lunga una quaresima che quando si scaldava si sollevava dieci centimetri da terra, e allora voleva dire che potevi partire.
Alex non lo toccò con un dito per il primo mese. Andava a prendere il ragazzo sotto casa, lo faceva sedere in macchina e rispondeva a tutte le sue domande sui gay e l’omosessualità, le discoteche, Mykonos, Ibiza, l’ecstasy e la cocaina, i preservativi e tutto il resto finché non si faceva tardi e non gli restava che riportarlo a casa e andare a dormire ad Anguillara perché il giorno dopo doveva tornare a Roma a lavorare.
Poi una sera il ragazzo invitò Alex a salire. Non era la prima volta che il ragazzo dava un bacio, ma era la prima volta che baciava un uomo. E svenne, letteralmente. Quando si riprese si ritrovò nell’ambulanza con Alex che lo guardava con i suoi occhioni verdi e gli teneva la mano. L’ultimo ricordo che aveva di Alex però erano i suoi occhi rossi di pianto quando era stato costretto a lasciarlo dopo la famosa telefonata dell’allenatore. E una cassetta con una musica classica di sottofondo e la sua voce registrata che spiegava ai suoi genitori che loro due non avevano fatto mai niente di male: andavano al cinema, ascoltavano musica in macchina, andavano a cavallo e qualche volta a mangiare al ristorante di un amico sulle rive del lago di Anguillara. Erano solo un uomo e un ragazzo che si amavano.

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