martedì 13 aprile 2010

Goldie (III parte)

Il sesso per lui avrebbe conservato sempre il sapore e l’odore di quel posto.
Lo stesso odore di sudore e urina appiccicata sotto la suola degli anfibi a carrarmato. Lo stesso sapore di sborra incollata alle pareti fredde delle darkroom. Perché il sesso non è amore. Non è una cosa da condividere. Non è un progetto in comune. Non è crescere insieme. E’ tutto quello che non sei di giorno. Quello che non vorresti venga fatto a te, ma che non puoi fare a meno di fare. E di rifare. Come un buco nero che ti attrae. Ossessivamente. Inesorabilmente. Irresistibilmente.
E ogni volta che quel desiderio tornava a torturarlo, a chiamarlo, a comandarlo, lui non poteva far altro che obbedire. Allora un irrefrenabile tremore s’impadroniva del suo corpo come una febbre che lo divorava dall’interno e lo faceva sudare come quelle sue febbri da bambino, solo che invece di farlo crescere questa lo faceva precipitare in un abisso di bassezza. Era come se l’anima sua si raggrinzisse tutta finché la luce e il calore del bene non lasciavano il posto alla notte della ragione. Al nero del male in persona. Allora la sua natura di animale notturno riemergeva dalle tenebre dell’inconscio in cui era stata ricacciata a forza di preghiere e di candele accese sull’altare dell’Amore. E si impossessava di lui. I suoi sensi si acuivano come quelli di un cacciatore in cerca della sua preda e si abbandonava a un’orgia di sesso disperato, animalesco e senza confini finché non faceva giorno. Le prime volte il ragazzo doveva fumarsi un pacchetto intero di sigarette per farsi passare quel tremore e disinibirsi abbastanza per abbordare qualcuno, uno a caso. Subito cercava le sue labbra. Le preferiva morbide e carnose, più rosse che rosa; turgide e circondate di peli ispidi, come una promessa del sesso che nascondevano più sotto. Si abbeverava al fiume di saliva che quegli omoni pelosi sputavano sulla bocca e sui lineamenti gentili del suo viso da bravo ragazzo. Quell’atto di estrema sottomissione gli procurava  un piacere enorme e gli faceva tornare in mente quella curandera brasiliana che gli aveva insegnato che la lingua è l’organo più impuro dell’uomo, quello preposto a dare e ricevere il maggior godimento fisico. Negli incontri occasionali consumati al buio, nei bassifondi e nelle latrine che amava frequentare durante i suoi incontrollabili accessi di libido s’era convinto che il gioco di ruolo tra vittima e carnefice fosse alla base di un rapporto sessuale davvero appagante. Ma nonostante cercasse di negarlo anche a se stesso, era la dolcezza e la comprensione che cercava negli altri. La pienezza di un abbraccio che sapesse placare la sua sete d’amore e d’accoglienza. In tutti gli uomini che incontrava percepiva quel misto di orgoglio, furore, disperazione e autoindulgenza che riconosceva a pelle in tutte le minoranze ghetizzate, neglette e perseguitate della Terra, ma che razionalmente rifiutava. Avendo fatto della bellezza e della giovinezza la sua estrema ragione di vita, rifuggiva l’immagine stessa della sofferenza. Trovava assurda l’idea di chi -sentendosi diverso dagli altri e dunque indegno di vivere come loro- vedeva nel tormento l’unica via possibile per raggiungere l’estasi. La sua gioia di vivere e la sua innata curiosità gli avevano guadagnato il favore di tutti gli uomini che aveva incontrato. I più belli, ricchi e potenti. Tutti quelli che aveva voluto e che gli avevano voluto bene, per non dire amato. In fondo gay non voleva dire gaio? si ripeteva sempre, anche se si sentiva più incline alla mestizia che all’allegria. 
Nei suoi rari momenti di grazia, quando era al colmo della gioia, il ragazzo aveva la sensazione di toccare il cielo con un dito. Ma quanto più saliva in alto tanto più presagiva il baratro dell’inevitabile caduta. E quasi senza accorgersene, come se volesse in qualche modo limitare il dolore e l’umiliazione della sua rovina, inconsciamente l’anticipava.
Cosa stava facendo della sua vita? Uomini, uomini, uomini. Sembrava che volesse solo incontrarne il più possibile e stabilire un contatto. Un giorno, una notte, un’ora cosa importa? Ci si legava come un piccolo Spiderman ogni volta che veniva, lanciando a destra e a manca piccole ragnatele appiccicose e trasparenti per tessere la sua rete invisibile di connessioni. O era una rete di salvataggio? Nel frattempo le sue acrobazie amorose si facevano sempre più ardite. Non aspettava neppure di finire un incontro che già ne aveva organizzato un altro. Al telefono, via sms, su internet. Lanciava ami in tutte le direzioni. E qualcuno abboccava sempre. Ma più ne beccava meno gli bastava. Ogni limonata, ogni pompino, ogni scopata non facevano che aumentare la sua sete di carezze. Quello che voleva davvero in fondo era un abbraccio, l’espressione più sincera del perdono. Nelle sue rare notti solitarie si esercitava a visualizzare i volti di tutte le persone che avevano contato qualcosa per lui, come gli aveva insegnato la curandera. Ma passandoli in rassegna uno a uno doveva ammettere che il grande amore non c’era.

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