mercoledì 25 agosto 2010

Sogno n°5

Maggio era il mese in cui si cambiavano le vetrine dei negozi con i sassi.
I ragazzini in strada raccoglievano i sanpietrini e li caricavano sulla carriola. Aspettavano la mattina presto, quando le luci dei lampioni erano ancora accese ma in strada non c’era ancora in giro nessuno, e cominciava la festa. Lanciavano i sassi contro i vetri e li spaccavano così, semplicemente. Poco male. I passanti li guardavano tranquilli e così pure i negozianti che tiravano su la claire, scopavano via le schegge di vetro e li sostituivano con delle lastre nuove.

A giugno c’erano tre case con le scale collegate tra loro al pianterreno e un aereo che decollava in discesa. In una casa era sempre inverno. Nella seconda il papà si nascondeva e il figlio gli rubava il portafogli. Nella terza tutto girava: le pareti ruotavano e mobili e oggetti roteavano in aria in tante spirali.

Luglio era la festa dei burloni. Avevano un paio di super occhi che permettevano loro di vedere le cose da vicino anche se erano lontanissime. Facevano festa tutto il giorno e tutta la notte. E vivevano sempre felici e contenti.

martedì 24 agosto 2010

Droppie (XI parte)

Dopo quella giornata stressante era seguita una notte completamente insonne.
Il ragazzo si era rigirato nel letto fino all’alba. Appena era riuscito a distinguere le sagome delle case s’era alzato, era andato in cucina e si era preparato un caffé bello forte che lo tenesse sveglio per il resto del giorno che avrebbe dovuto passare in biblioteca. Doveva consegnare la tesi entro la fine della settimana. Il relatore gli aveva dato l’ultimatum e non poteva permettersi ulteriori ritardi, pena lo slittamento della laurea alla sessione successiva, sei mesi dopo. Il ragazzo aveva acquistato a gennaio il biglietto aereo per New York e non avrebbe rinunciato per nulla al mondo al suo viaggio fly-and-drive nella terra della libertà. Voleva visitare il Village e lo Stonewall dove tutto era cominciato. Poi Miami, San Francisco e Los Angeles. Aveva già contattato degli amici via internet e aveva organizzato tutto. Avrebbe dormito da amici e amici di amici in ogni città e qualche giorno in ostello, nelle città dove non aveva appoggi o nelle tappe intermedie tra una destinazione e l’altra. In fondo era un viaggio all’avventura e come andava andava. Non era la prima volta che viaggiava da solo e sapeva perfettamente come cavarsela. Era certo che si sarebbe divertito e che quella sarebbe stata un’esperienza da raccontare ai suoi nipoti, si fa per dire.
Prese la vecchia moka della nonna, quella da sei tazze e ricordò come il caffè per Donna Caterina fosse un rito. Fece scorrere l’acqua del rubinetto e riempì la base della macchinetta mezzo dito sopra la valvola, come gli aveva insegnato lei. Poi ci mise il filtro, capovolse il tutto per eliminare l’acqua in eccesso e caricò il caffè. Fece una bella montagnella e la schiacciò per bene col cucchiaino. Alla fine ci fece due o tre buchi al centro con uno stecchino in modo che l’acqua potesse salire su agevolmente e avvitò bene la moka. Accese il fuoco al minimo, sollevò il coperchio della caffettiera e ci mise
sopra il cucchiaino a mo’ di paragocce.
Mentre aspettava che salisse il caffè, vide la penna. Era una di quelle a scatto trasparenti, con la donnina che si spoglia quando la metti a testa in giù per scrivere. Solo che al posto della donnina c’era un uomo in miniatura vestito da cowboy, con un grosso pisellone nascosto sotto la salopette jeans. “Billy” c’era scritto. Il ragazzo di aver ricevuto quel gadget per l’apertura di una discoteca gay di Roma. Si rigirò Billy tra le mani per un po’ e poi cominciò a scrivere sul retro del foglio dove aveva appuntato la lista della spesa.

“Era qui che mi aspettava, la tua penna. Un’altra cosa che mi farà ricordare di te per tutta la vita. Sapessi quanto mi pesa questa riconquistata vita da single. I party, i free pass, gli sguardi furtivi, i primi approcci, i preservativi e tutto il resto. Mi sembra un secolo da quando stavamo insieme. Ci penso mentre guardo le piante rinsecchite sul mio davanzale. Sembrano qui apposta per ricordarmi quanto sia precaria la vita. Tutto passa, tutto si trasforma. E noi che tentiamo inutilmente di dare ordine al caos.
Attraverso le inferriate del balcone vedo un gruppo di ragazzi che tornano a piedi da qualche discoteca e mi domando chi di noi sia prigioniero.
La vera prigione è la coppia che dopo mille notti passate avvinghiati l’uno all’altro stritola ogni passione, o questa gabbia di matti che in piena notte lascia il mondo dei sogni per rincorrerne altri nel buio dei locali?
Più passa il tempo più il ricordo di te si fa dolce come la polpa di un’arancia. Sotto la buccia indurita dalla rabbia e dal rancore cerco il buono di te che ancora c’è. I tuoi gesti gentili, le tue parole affettuose, i tuoi pensieri premurosi. Cerco di capire ancora cosa sia successo. Volevo sentirmi importante per qualcuno. Insostituibile. Imbattibile. Che stupido. Credevo di poterti aiutare a cambiare la tua vita e invece ho finito per cambiare la mia. Per sempre. Accarezzandoti di notte come i gatti mi nutrivo dei tuoi incubi, delle tue paure inconfessate, delle tue ossessioni. Fino a venirne inesorabilmente posseduto.
L’altro giorno un gatto nero mi ha attraversato la strada, fulmineo e silenzioso come il pensiero di te. Mi ha lanciato una breve occhiata attraverso la fessura verticale delle sue pupille. Aveva la stessa luce sinistra che ti vidi balenare negli occhi sotto le strobo in quella maledetta discoteca. Occhi belli e dannati.
Dannato me e la mia presunzione. Sì, sono presuntuoso, narciso, ambizioso, illuso. Sono triste e solo. Ma sono vivo. Sono qui che bacio un’alba nuova sul vetro appannato della mia cucina. Ci sono amori da vivere e amori da scrivere.”

lunedì 23 agosto 2010

Droppie (X parte)

Il giorno dopo si mise il computer sottobraccio e prese la metro per andare in biblioteca a finire la sua tesi. Non aveva scritto a Silvia né l’aveva più chiamata dopo che era tornata a Milano. Non era dell’umore giusto per parlare con nessuno. Era ancora sottosopra e non avrebbe saputo cosa dirle. E poi il tempo era fisso sul bello. Avrebbe aspettato che piovesse e che il bicchiere sul davanzale si riempisse, come aveva detto lei. Nel tunnel della metro faceva già molto caldo alle dieci di mattina. Era pieno zeppo di persone irritabili e accaldate. Le panchine erano tutte occupate. Il ragazzo poggiò la schiena contro il muro ricurvo della stazione Cavour e si mise a leggere i cartelloni della pubblicità per ingannare il tempo.

“People would read anything in the tube” era l’headline di una campagna inglese che aveva citato nella sua tesi come miglior esempio di utilizzo dei media. Era proprio vero. Guardò il tabellone: ancora sei minuti. La metropolitana di Roma faceva ridere in confronto a quella di Milano. Nel frattempo arrivò sferragliando il treno in direzione opposta e dopo poco ripartì. Tra la folla di persone gli sembrò di riconoscere un impermeabile color crema che gli era stranamente familiare. Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata. L’uomo con la ventiquattrore e la chierica somigliava… ma no, non poteva essere. Eppure sembrava proprio lui. Stesso impermeabile dal taglio ampio con le spalline abbottonate, stessa fodera a quadrettini della Barbour. E i capelli portati corti dietro e sui lati e con la piazzetta in mezzo? Se non fosse stato per la montatura degli occhiali alla moda avrebbe giurato che quello fosse suo padre. Ma una montatura si può anche cambiare, pensò. L’uomo dall’altra parte dei binari intanto si avviò tranquillamente verso l’uscita. Il suo treno stava per arrivare ma il ragazzo fu preso da un impulso irrefrenabile. Cominciò a correre su per le scale come un pazzo, scontrandosi contro la fiumana di gente che scendeva in senso opposto. Nulla poteva fermarlo. Neppure quella cicciona con le buste della spesa e il figlio in braccio che per poco non ammazzava. Neppure il rischio di rompere il computer nell’impatto e di perdere tutto il lavoro fatto per la tesi. Salì i gradini delle scale di marmo due a due, scavalcò i tornelli e riemerse nel mare di turisti in Via dei Fori Imperiali. Dell’uomo con l’impermeabile crema neanche l’ombra. Davanti a lui svettava in controluce la sagoma imponente e maestosa del Colosseo. Non era la prima volta che gli capitava quella sensazione di spaesamento. Un attacco di panico in piena regola. Aveva sognato tante volte che il padre fosse vivo. Temeva che avesse inscenato la sua morte per potersi risposare, avere altri figli, rifarsi una famiglia. Cambiare vita insomma. Se non avesse visto con i suoi occhi e toccato con le sue mani il corpo esanime del padre su quella fredda lastra di marmo dell’obitorio non avrebbe avuto dubbi. Gli mancava ancora così tanto? Se lo immaginò all’estero. Avrebbe dovuto cambiare nome e professione, ma con la sua conoscenza dell’inglese e del francese, la sua intelligenza e la sua incredibile abilità di autodidatta Tullio ce l’avrebbe fatta ovunque. Una volta gli aveva raccontato che, da giovane, per far colpo su una danese di cui si era innamorato, aveva imparò da solo la sua lingua e le promise che un giorno anche in quella terra lontana lei avrebbe sentito parlare di lui. E così fu. A 40 anni e senza appoggi politici o raccomandazioni di alcun genere Tullio era diventato il primario più giovane d’Italia e tenne congressi in tutto il mondo. Adesso che ci pensava, il padre aveva sempre prediletto i paesi del nord Europa. Sarebbe stata diversa la sua vita se suo padre fosse stato ancora lì con lui? Lo avrebbe aiutato con i soldi, l’università, la malattia e tutto il resto? E sua madre, come sarebbe stata? Lei che quando il marito era in vita si lamentava sempre che era un orso e non voleva mai uscire e vedere gente -a lui bastavano i suoi libri e la sua musica- e che dopo la sua morte aveva rimosso tutto: litigi, musi lunghi, incomprensioni, per ricordare solo quel poco di buono che restava. E’ così che funziona il cervello. Rimuove i ricordi brutti e conserva solo quelli che ti fanno stare bene. Gliel’aveva insegnato suo padre. Diceva sempre che il cervello non può impedirsi di pensare e che chi dice che non sta pensando a niente, mente spudoratamente. Perché è l’uso che fa l’organo. E l’unica funzione del cervello è quella di pensare. Addirittura una volta quando studiava biologia suo padre gli aveva detto che continua a esserci attività cerebrale anche qualche minuto dopo morti. E lui, cosa stava pensando in quel momento? Forse che a suo padre avrebbe fatto piacere vederlo laureato? Cazzo, la tesi! La sessione di laurea era fra meno di un mese e doveva ancora completarla e consegnarla al relatore.