martedì 27 dicembre 2011

Sogno n° 8


Sono alla guida di un autobus di linea a Roma. Attraverso una via del centro, stretta, con tante auto parcheggiate in doppia fila. La manovra per passare è difficilissima. Non c’è nemmeno un centimetro per lato. Sento tutti gli occhi dei passeggeri puntati su di me, ma io non mi perdo d’animo.
Scendo giusto per tirare dentro lo specchietto laterale e poi con abilità da autista consumato faccio sfilare il bus al pelo tra le macchine posteggiate alla meno peggio a destra e a sinistra, sotto lo sguardo ammirato di tutti.
Poco più avanti un barbone mi blocca il passaggio: sta dormendo in terra e ha lasciato una bella cacata davanti a sé, nel bel mezzo della strada. Le persone nell’autobus aspettano di vedere cosa farò stavolta. Apro le portiere, scendo e con le mie mani nude raccolgo la sua merda e gliela metto davanti, senza sporcarmi, senza scompormi e senza svegliarlo. Eliminato quel ultimo, piccolo ostacolo che considero un affronto alla decenza più che altro, un insulto personale più che un reale impedimento, risalgo tutto contento alla guida del mio bus. E me ne vado.

Davide (IX parte)


Quando Max e Davide rientrarono a casa, Silvia s’era docciata, vestita e truccata, coprendo il segno delle cinque dita con una generosa spennellata di terra di Siena che la faceva apparire ancora più abbronzata e faceva risaltare maggiormente i suoi begli occhi azzurri. Davide ne fu visibilmente contento. Era un secolo che non vedeva sua mamma così bella ed era orgoglioso che l’avesse fatto per lui. Aveva sempre pensato che fosse una sfiga incredibile compiere gli anni ad agosto, quando tutti i suoi amici erano in vacanza e a Milano non c’era più nessuno. Ma quel compleanno era diverso. L’avrebbero festeggiato tutti e quattro al lago. Max aveva organizzato tutto.
Davide non poté credere ai suoi occhi quando vide il laser da competizione che gli avevano regalato. Doveva provarlo subito. Ma Silvia fu irremovibile. Si era fatta un mazzo così per preparare i suoi tramezzini speciali al pollo e maionese e tutto il resto. E poi Davide doveva spegnere le candeline che sennò portava male. A diciott’anni poi! Fu uno spasso vederlo trangugiare il cibo del picnic e sorbirsi il rituale degli auguri, con tanto di foto in posa e tirate d’orecchie, come quando era bambino. Alla fine per poter spegnere le candeline –lui e non il vento del lago di Como- dovettero coprirsi tutti e quattro con il plaid che Silvia aveva steso per fare il pic-nic. Anche perché era l’unico modo di vedere la fiamma delle candeline accese sotto quel solleone.
“Beh? Non sei curioso di sapere cosa ti ha regalato lo zio d’America?” disse a un tratto Silvia. Davide lo guardò dritto negli occhi con la stessa faccia a punto interrogativo che aveva ereditato da sua mamma. Non si aspettava proprio niente da quel uomo semisconosciuto. Non ricordava neppure il suo nome o forse non l’aveva mai saputo.
“Tieni. Non ho nemmeno avuto il tempo d’incartarlo” si scusò l’amico della mamma e gli allungò una busta. Dentro c’era un biglietto aereo e una mappa degli USA con un cerchio rosso intorno a Provincetown e un indirizzo scritto sopra a penna.
Davide lo ringraziò educatamente ma l’America per lui era così lontana, nello spazio e nel tempo. Ora voleva solo andare sulla sua barca.
Silvia e l’amico lo osservarono veleggiare al centro del lago, dove poteva divertirsi come un matto ad appendersi fuoribordo con tutto il peso del corpo per controbilanciare la forza del vento che gonfiava il trapezio. Max lo seguiva dalla riva col binocolo. Era lui che l’aveva iniziato a quello sport e andava molto fiero del suo piccolo campione e del suo grande lago. Alle sette il sole era calato insieme al vento e finalmente si vide Davide tornare verso riva. Silvia e Max si tuffarono subito e lo raggiunsero all’imbarcazione a nuoto, ma l’amico della mamma restò lì. L’acqua era calda, gli giurava Davide, ma non riusciva a convincerlo. Lo zio d’America se ne stava lì come una lucertola al sole, con i piedi conficcati nella sabbia.
Ma Silvia sapeva cosa fare. Cominciò a prenderlo in giro come ai tempi della scuola e quando lo chiamò femminella lui si tuffò per fargliela pagare.
Silvia era una nuotatrice professionista da giovane e non le sarebbe stato difficile seminarlo, ma fece finta di aver perso l’allenamento. Quando l’amico la raggiunse e la spinse sott’acqua un paio di volte, Silvia lo lasciò fare senza opporre resistenza. Davide rimase ad osservarli per qualche minuto da lontano sbattendo le ciglia lunghe e nere per capire se stavano giocando o se invece facevano sul serio. Come tutti i giovani maschi era iperprotettivo con la madre. Ma quando la sentì ridere si voltò dall’altra parte e in due o tre bracciate guadagnò la riva. Gli altri lo seguirono dopo una decina di minuti. Cominciava a fare freddino e si stesero ad asciugarsi all’ultimo tiepido sole. Nessuno disse più una parola per un po’. Fu Davide a rompere il silenzio.
“Bello il tuo tatuaggio. Ma perché è un’ala sola?”
Silvia era distesa a pancia in giù per prendere il sole sulla schiena. Fece giusto in tempo ad aprire gli occhi prima che l’amico sprofondasse i piedi fino alla caviglia nella sabbia. Fu allora che la vide anche lei per la prima volta. Sul malleolo del piede sinistro dell’amico c’era un’ala tatuata. Una piccola ala come quella di Sub Mariner. Silvia alzò un sopracciglio e fissò l’amico. Aveva gli occhi sgranati e la bocca semiaperta come quel giorno sull’altare. Annaspava alla disperata ricerca del suo aiuto e della sua approvazione. Davide stava aspettando serio. I due amici si guardarono. Sorrisero. E alla fine risposero con il linguaggio dei pesci.

lunedì 26 dicembre 2011

Davide (VIII parte)


Silvia non andò a prenderlo neppure all’aeroporto. Troppo caldo, aveva detto. Certo c’era una bella differenza dall’ultima volta che era stato a Milano. Il tassista attraversò la città semideserta nella calura d’agosto con i finestrini oscurati e l’aria condizionata a palla e lo scaricò in Via Stradella 4, senza dire una parola per tutto il viaggio.
Stanotte la moglie non gliel’avrà data, pensò il ragazzo; pagò e scese senza salutare.
Silvia accolse l’ex amico in sottoveste nell’ampio soggiorno dell’appartamento dei suoi genitori. La casa era completamente cambiata, ma il ragazzo riconobbe il tavolo in cucina dove si sedevano a fare i compiti al liceo. Silvia nel frattempo aveva incontrato Max, un bel ragazzo dagli occhi buoni che disegnava stampe per un’azienda di tessuti sul lago di Como e che Davide chiamava papà.
Il bambino era diventato un uomo: alto, biondo e con gli occhi azzurri come la madre. Aveva la spensieratezza e l’atteggiamento dinoccolato tipico dei pargoli benestanti della sua età, ma senza la spocchia e la malizia dei suoi coetanei americani.  Non sembrava aver sofferto più di tanto per la sua infanzia travagliata e la tragica morte dei nonni che per lui erano stati dei veri e propri genitori, visto che Silvia era sempre al lavoro e aveva trovato una relativa stabilità affettiva solo con il suo attuale compagno. Il suo sguardo era diretto e limpido. La sua stretta di mano decisa ma accogliente. Il suo tono di voce suadente ma virile. Il ragazzo fu presentato a Davide come un vecchio amico della mamma. E come dargli torto, dato che l’aveva visto sì e no un paio di volte, escluso quando era in fasce? Dopo i convenevoli di rito Max e Davide uscirono con una scusa e lasciarono Silvia e l’amico in casa da soli.
“Perché?” gli disse Silvia senza tergiversare, appena sentì chiudere la porta.
La mammità, l’età e tutto il resto non l’avevano cambiata neanche un po’. Aveva conservato intatti i modi diretti e il piglio deciso della sua giovinezza. Il suo sguardo freddo, occhi negli occhi, non lasciava via di scampo. Aveva sempre odiato le bugie e adesso voleva la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Il ragazzo lo sapeva ma fece finta di non aver sentito per prendere tempo.
“Perché, cosa?”
“Perché, Andrea? Perché un nome falso? Perché dare all’uomo della tua vita, a tuo marito o come cazzo vi chiamate tra di voi, il tuo nome di battaglia? Lo stesso nome falso che riservavi ai tuoi incontri occasionali. Quelli da una scopata e via come dicevi tu. Quelli che non avresti più rivisto, che comunque non se lo meritavano di conoscere il vero te stesso. Bla bla bla… La tua bella anima candida! Bella predica davvero. E da che pulpito!”
“Tu non capisci”.
“Capisco benissimo invece. Quello che non capisco è perché l’hai fatto proprio a me.
Come se non lo sapessi quanto detesto le bugie. E per giunta davanti all’altare! Che patetica messinscena”.
“Giusto, scusami. Perché solo voi potete sposarvi, vero? Noi no, maledetti sodomiti che non siamo altri!”
“Cos’è, fai la vittima? Guarda che con me non attacca. Per me chiunque può sposarsi con chi cazzo gli pare, figurati! Bastasse un pezzo di carta ad assicurare il successo di un’unione… E comunque perché scimmiottare il matrimonio etero? Come se ormai non fosse ampiamente dimostrato dai fatti che è la più grande cazzata di tutti i tempi. Altro che sacramento! Sposarsi… per giunta con il doppio rito: ebraico e cattolico? Come se uno solo non bastasse. Quanto zelo! Degno di miglior causa, davvero. Congratulazioni vivissime, Andrea Coiro! Vuoi tu prendere in sposo il qui presente Andrea, Luca, Giovanni o come cavolo ti chiami… nella buona e nella cattiva sorte?”
“Piantala!”
“Ed amarlo e rispettarlo finché morte non vi separi? Bel rispetto davvero!”
“Non infierire ti prego…”
“’Sì, sì, lo giuro davanti a Dio. Per sempre!” continuò Silvia, scimmiottando la risposta del ragazzo all’altare con la voce emozionata e l’atteggiamento sinceramente contrito di un chierichetto.
”Se esistesse un Dio, su quel altare avrebbe dovuto fulminarti con lo sguardo. Lui, non io!”
“Lascia che ti spieghi, almeno…”
Silvia era fuori di sé dalla rabbia. Non voleva sentire ragioni e continuava a urlargli in faccia le sue colpe, rossa in viso come un’ossessa.
“Per sempre. Per sempre bugiardo, ecco cosa sei! Me l’avevi già fatto una volta, ricordi? Con quel conte del cazzo e il suo Nicola di Bari... E io ti avevo perdonato. Che stupida sono stata a fidarmi ancora di te. Di questa bella faccia d’angelo, dei tuoi piagnistei, della tua tanto sbandierata sensibilità, della tua pesante verità. Del tuo insostenibile segreto. Me lo porto ancora sulle spalle quel fardello, sai? La tua vita, la tua malattia, la tua disperazione e la tua speranza. L’ho nutrita io quella speranza, per tutto questo tempo. Come una serpe in seno l’ho nutrita. Col mio silenzio. Con la mia  complicità. Ma adesso è arrivato il tempo di dire la verità. Ti ho fatto venire qua per questo. Per vedere se sarai ancora capace di mentire anche di fronte ai 18 anni di mio figlio. Voglio proprio vedere che insegnamento gli darà lo zio d’America per il suo futuro. Vivere nella verità e nella luce come andavi pontificando ai tempi del liceo, o accontentarsi della menzogna quando ti fa comodo? Rispondi!”
“E’ inutile. Tu non puoi capire come ci si sente a essere…”
“Sieropositivo? Dillo. Che male c’è? E’ una malattia come un’altra, anzi oggi è anche meno peggio di tante altre. Una malattia, mica una colpa, l’hai detto sempre tu. Cos’è, ora ti vergogni? E di che cosa? Della malattia, di Luca o di te stesso?”
“Non osare nemmeno pronunciare quel nome!” gridò il ragazzo fuori di sé dalla rabbia.
Silvia sgranò gli occhi e rimase impietrita quando le arrivò il ceffone. Sentì la guancia bruciare e immaginò il segno lasciato dalle cinque dita del ragazzo. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Un sentimento nuovo, profondo e sconosciuto si fece strada faticosamente ma inesorabilmente dentro di lei. Era odio quello? Silvia non osò pronunciare il suo nome; lo scacciò via dalla sua mente come una maledizione, come un veleno mortale. Perché la vita le aveva insegnato che l’odio non perdona, ma avvelena l’anima di chi lo prova fino ad ucciderlo e la vita umana è così fragile, così precaria e così breve. E l’odio è pur sempre un sentimento, come l’amore. Uguale e contrario. Il ragazzo sostenne lo sguardo di Silvia con la forza di quel amore per un tempo che sembrò infinito finché i due vecchi amici si strinsero piangendo in un abbraccio, l’espressione più sincera del perdono.

sabato 24 dicembre 2011

Davide (VII parte)

Dopo il matrimonio i due non si videro né si parlarono più per otto anni. Silvia non partecipò neppure ai festeggiamenti. Tornò subito a Boston sull’auto del sacerdote e ripartì immediatamente per Milano con la scusa che Davide si era sentito male. Dopo otto anni e dieci squilli di cellulare, Andrew si decise a rispondere al telefonino del ragazzo. Non era nel suo stile impicciarsi degli affari altrui e come tutti gli americani aveva un sacro rispetto della privacy, ma quando è troppo è troppo! Stava riposando e quel telefonino non la smetteva di suonare. Era Silvia: invitava entrambi in Italia per il diciottesimo compleanno di Davide. Andrew era corso a cercare il ragazzo per comunicargli la bella notizia, sorpreso ed eccitato all’idea che i due amici potessero rincontrarsi dopo tutto quel tempo. Ma anche timoroso che Andrea –aveva sempre considerato una banale coincidenza che il ragazzo avesse il suo stesso nome- potesse opporre il suo veto, come aveva fatto ogni volta che si era presentata l’occasione di fare un viaggetto in Italia, fino ad allora. Aveva lasciato il cellulare in casa ed era andato in giardino dalle sue peonie.

Lo trovò lì come al solito, inginocchiato a terra con un cappello di paglia in testa come la signore delle camelie e gli comunicò la bella notizia.
Dopo il matrimonio i due si erano trasferiti definitivamente a Provincetown, dove da qualche anno era stato installato il primo ripetitore telefonico, con grande dispiacere di Andrew e di pochi altri isolani ricchi e snob che come lui consideravano quell’isola un’oasi privatissima per il loro esclusivo piacere e riposo.
Per questo Andrew aveva venduto l’appartamento di New York con i mattoncini rossi e la pretenziosa villa a Fairfield. Con il ricavato avevano ristrutturato e ampliato la palafitta e costruito un bel giardino sul retro che era il regno indisturbato del ragazzo. Andrew aveva comprato anche un ristorantino al porto che aveva però dato subito in gestione alla coppia di amiche lesbiche. Adesso per la maggior parte del tempo se ne stava in costume a prendere il sole in spiaggia e faceva lunghe nuotate al largo, apparentemente indifferente alla temperatura dell’acqua che il ragazzo definiva “artica” rispetto a quella del Mediterraneo a cui era abituato lui.
Per fortuna quella volta il ragazzo apprese la notizia con gioia e richiamò subito Silvia dal suo cellulare. Andrew ci si mise d’impegno a capire cosa si dicevano ma i due amici parlavano così fitto che rinunciò e dopo un po’ se ne tornò al suo mare e al suo sole.
“Ma mi spieghi perché cazzo non ci posso venire se mi ha invitato lei personalmente!” tentò di protestare Andrew mentre il ragazzo faceva la valigia.
“Eppoi voglio conoscere Davide. Me ne parli sempre, scusa!”
“Preferisco andarci da solo. Sono otto anni che non ci vediamo e non ci parliamo e non voglio che lei si senta in imbarazzo quando dovremo chiarire la cosa.”
“Ah, è così allora? Sono otto anni che ti chiedo che cazzo è successo tra di voi e continui a dirmi niente. E adesso c’è qualcosa di così importante da chiarire che devi farlo da solo. Ma si può sapere cosa hai in quella testa dura del cazzo?”
“Niente. Non è successo un cazzo di niente. O almeno io non lo so. Ma se c’è qualcosa da chiarire tra noi voglio che ne parliamo tranquillamente solo lei ed io, senza l’assillo di dover spiegare a te, tradurre eccetera. Capisci? Amore dài, non fare così. Tu sei sempre stato quello che sdrammatizza le cose. Non fare il droppie della situazione adesso!”
“Non usare quella parola. Lo sai che la odio. Non sono mica il tuo ex! E togliti dal mio sole. Tanto con voi italiani è inutile parlare! Come la giri e la volti, c’avete sempre ragione voi. Fanculo!”
Il ragazzo gli schioccò un bel bacio sulle labbra e se ne andò, lasciando il compagno ai suoi pensieri stereotipi e un po’ razzisti sugli italiani tutta mafia, pizza e mandolino e ringraziando quel sole e quel mare che avrebbero fatto compagnia rendendogli meno pesante la sua assenza. In fondo si trattava solo di una settimana.

Davide (VI parte)


Andrew sapeva che l’unico modo di fare restare il ragazzo in America era sposarlo. Le nozze furono fissate per l’estate successiva, il giorno del loro secondo anniversario.  Silvia fu l’unica invitata dall’Italia. I genitori del ragazzo erano morti, suo fratello non aveva mai davvero accettato la sua omosessualità e comunque lui non glielo disse. Ad Andrew non era rimasto che il fratello, ma i due non si parlavano da anni. Fu una cerimonia molto intima e con pochissimi invitati, tutti rigorosamente scalzi e vestiti di bianco per volere di Andrew, tranne gli sposi che alla fine dovevano rompere il bicchiere come prescritto dal rito ebraico. Il ragazzo aveva scelto uno smoking bianco della collezione da crociera di D&G, mentre per Andrew non c’era altro che Armani. Silvia accompagnò il ragazzo all’altare in un bellissimo abito di sua creazione, i capelli raccolti in un elegante chignon e un foulard di seta trasparente al collo, che dovette legarsi in vita perché non la finiva di svolazzare di qua e di là per tutto il tempo. Fu la prima volta che il ragazzo notò la rosa tatuata che partiva da un piede di Silvia e finiva sull’altro. E ne rimase molto colpito. Andrew sbarcò da una barchetta a remi spinta dalla proprietaria lesbica della sua galleria d’arte preferita e fece il suo ingresso sulla spiaggia sotto una pioggia di applausi e petali di rose bianche. 

Quella fu l’unica volta in cui abbandonò l’understatement del suo stile per concedersi un tocco di glam che nessuno avrebbe più dimenticato. Primo fra tutti il ragazzo che era stato tenuto volutamente allo scuro di tutto dal suo futuro consorte. Andrew pronunciò la formula di rito alla presenza del rabbino e dei testimoni e alla fine della cerimonia ruppe il bicchiere al primo colpo sotto il tacco dei suoi mocassini bianchi di Prada. A seguire ci fu il rito cattolico. Il ragazzo si era opposto in tutti i modi ma Andrew ci teneva tantissimo e non volle sentire ragioni. Il rabbino cedette il posto a un sacerdote cattolico fatto venire apposta da Boston. Andrew aveva imparato la sua parte a memoria e la recitò in un perfetto italiano che impressionò molto Silvia. Poi fu la volta del ragazzo. A differenza di Andrew appariva visibilmente teso ed emozionato. Non si sposava solo per la green-card. Era il sogno della sua vita che si realizzava. Il suo sogno d’amore. Proprio lì a Provincetown, la loro terra promessa, sotto le finestre della loro palafitta, su quella stessa spiaggia che li aveva visti abbracciati tante volte ad amoreggiare fino all’alba.

Il sacerdote pronunciò la formula in perfetto italiano: “Vuoi tu Andrew Lush prendere come tuo legittimo sposo il qui presente Andrea Coiro per amarlo ed onorarlo nella buona e nella cattiva sorte finché morte non vi separi?”
Silvia trasalì vedendo lo sguardo terrorizzato negli occhi del ragazzo che non si decideva a pronunciare il fatidico sì. Sollevò un sopracciglio e attese in silenzio.
“Sì, lo voglio” lo sentì dire.

venerdì 23 dicembre 2011

Davide (V parte)


Luca aveva scoperto la sua identità ombra e in un ultimo, disperato tentativo, nell’allucinazione chiaroveggente della malattia e della sua fine imminente, aveva voluto affidare la sua verità a quella coperta, usando parole che solo il ragazzo avrebbe capito. E per fortuna nessun altro.
Il ragazzo pianse lungamente con dolcezza, senza più rancore, per la prima volta dopo tutto quel tempo. Silvia vide una goccia densa solcare il suo profilo. Se quella lacrima avesse potuto parlare, le avrebbe detto che l’amico non stava piangendo per Luca ma per se stesso.
Passarono due settimane prima che il ragazzo ripartisse per New York. Ne approfittò per salutare un po’ di amici e fare un salto a Roma per regolare alcune questioni amministrative con l’inquilino a cui aveva affittato la casa di Trastevere.

Andrew gli aveva detto che l’agenzia aveva chiamato un paio di volte per sapere quando aveva intenzione di tornare, ma il ragazzo non dette peso alla cosa come avrebbe dovuto. Bastarono quelle due settimane perché in agenzia si accorgessero di poter fare a meno di lui. Quando tornò, trovò una bella lettera di licenziamento sulla sua ex scrivania, insieme a un assegno con tutti i soldi che gli spettavano, detratti naturalmente quei 14 giorni. Non ci volle molto a mettere le sue cose dentro uno scatolone e andarsene senza salutare, anche perché non aveva amici lì dentro, soprattutto nel reparto creativo.
Ne parlò con Andrew senza aspettarsi una risposta quella sera stessa, a letto. Andrew gli spiegò che gli americani avevano al massimo una settimana di ferie l’anno e che a New York quelle erano cose all’ordine del giorno. Poi si alzò, andò in cucina e tornò a letto con due flute colmi di champagne per brindare alla loro nuova vita da disoccupati. Era tipico di Andrew e il ragazzo in cuor suo lo benedisse per quella sua innata capacità di sdrammatizzare tutto. Mentre sorseggiava il suo champagne il ragazzo sentì uno strano tintinnio all’interno del bicchiere. Guardandolo in controluce vide qualcosa luccicare tra le bollicine che salivano dal fondo. Era un anello di fidanzamento con diamante.

venerdì 7 ottobre 2011

Davide (IV parte)

Silvia seguì con lo sguardo la mano del ragazzo mentre accarezzava le lettere della poesia lentamente, una dopo l’altra, come se fosse stata scritta in braille.

S’intitolava “Il ragazzo che volava di profilo.”

C’era un ragazzo
che per le nuvole ci andava pazzo.
Le amava così tanto
da farsi un tatuaggio.
Ma una nuvola intera non ci stava.
Allora il ragazzo si dipinse un’ala
come quella di Mercurio, il dio corridore
sul piede sinistro, il lato del cuore.
A guardarlo da quel lato
si vedeva che era alato.
Ma quel segreto non fu mai svelato.
Nemmeno quando il ragazzo andava in spiaggia.
Perché conficcava i piedi nella sabbia.
I pesci del mare lo sapevano
che poteva volare.
Ma non lo andarono certo a raccontare.

Sulla targhetta di fianco alla coperta c’era scritto: Luca Pierangeli 8-8-1968, 9-5-2000.
Era proprio il suo Luca. Rileggendo il titolo della poesia e i riferimenti cos’ chiari alla sua vita d’un tratto il ragazzo capì che solo Luca l’aveva compreso davvero. Solo Luca gli aveva “grattato l’anima” come diceva sempre lui alla fine dei loro interminabili discorsi. Solo lui l’aveva stanato. Al di là dei blasoni, dei nomi falsi e delle beate illusioni dell’amore. 
Al di là di tutte le cazzate sulla madre e sul padre, della sua visione eroica della vita, della tanto millantata religione dell’uomo a cui diceva di voler ispirare tutta la sua vita. Oltre le apparenze e le parole inutili dietro cui aveva sempre nascosto a sé e agli altri la propria verità. Altro che ideologie del cazzo, visioni oniriche, ossessione del sesso. Le parole stanno a zero. La verità stava là davanti a lui, anzi al suo fianco. Nel suo profilo riflesso nella vetrata del ristorante che dava sul parco. Il suo profilo con il naso camuso che non a caso il ragazzo odiava tanto. D’un tratto gli apparve chiaro che tutta la sua vita, tutta la sua fottutissima esistenza era solo una farsa. Una rappresentazione teatrale di se stesso. Un cinema. Un’ombra cinese proiettata sul muro della apparenze con cui amava mostrasi agli altri. Il ragazzo si rese conto in un istante che non aveva mai affrontato la vita di petto come andava predicando con la sicumera tipica di chi non ha nulla da nascondere: né difetti, né malattie, né perversioni. Tanto ogni cosa è giustificabile in nome della sincerità. “Sante bugie” diceva sua mamma e il ragazzo l’aveva presa in parola. Senza neanche accorgersene in tutti quegli anni non aveva fatto altro che mentire, sapendo di mentire. Invece di affrontare la vita di petto si era accontentato di andare di profilo. Volava con la fantasia, ma sempre coi piedi ben piantati per terra. Anzi sottoterra, nelle profondità oscure e impenetrabili delle sue bassezze a cui negava l’accesso a tutti, a volte perfino a se stesso.