mercoledì 27 ottobre 2010

Sogno n°6


Sto riposando nel giardino di una villa. Enorme e perfettamente curato. Alla testa della siepe che borda ogni aiuola d’erba rasata di fresco, c’è un alberello dal tronco sottile e la chioma dalla forma perfettamente sferica, sagomata da cesoie esperte. Io sono appoggiato con la nuca a uno di queste soffici sfere verdi. Ma invece di essere verdi come le foglioline di pitosforo che le compongono, queste sfere sono fatte di piume color indaco. Non blu, non viola, ma proprio color indaco: quello che si vede solo nell’arcobaleno. Sono le piume degli uccelli del Paradiso -quella specie tropicale dalla lunga coda e dalla crestina vellutata- che hanno scelto le sfere scolpite nel giardino all’italiana della villa per farci il loro nido. Davanti a me c’è un distesa a perdita d’occhio di nidi indaco morbidi e lisci come velluto. E’ bellissimo mi dico, ma poi penso che insieme alle piume avrò i capelli pieni dei loro escrementi. E infatti mi alzo e mi tocco i capelli con disgusto: in effetti ho la testa piena di piccole larve bianche e ho voglia di lavarmi i capelli. Devo trovare dell’acqua, un bagno e anche se a malincuore, devo abbandonare la tranquillità di quel parco e la bellezza di quella splendida vista. C’è un treno che mi aspetta. Un lussuosissimo treno di sola prima classe, tipo Orient Express. Il capotreno ha già fischiato e devo affrettarmi a salire. Appena sono su, trovo il bagno e mi lavo la testa tutto contento. Il treno vola letteralmente sopra la città come quelli a monorotaia che si vedono solo in Giappone o nei film di fantascienza. Dai finestrini ampi e spaziosi vedo sfilare a gran velocità i tetti di Milano, le guglie del Duomo e poi Venezia, Bruges, Amsterdam in rapida successione finché il treno fa una breve sosta per il pranzo in Belgio. Di colpo fuori dalla carrozza ristorante appare un patio pieno di piante, coperto da una tenda e illuminato dalla luce di decine di candele che tremolano alla leggera brezza della sera. E’ tutto più che perfetto! E di colpo il sogno cambia.
Scendo dal treno in aperta campagna, nelle vicinanze di Palermo. Le rotaie confinano con il parco della villa di una nobildonna amica di Antonemilio. Ma io devo essere arrivato in ritardo e lui non è lì ad aspettarmi. Al suo posto incontro quell’invidioso di Nello e la cosa mi mette a disagio. Per di più intorno a me è tutto un brulicare di super nobilone con la puzza sotto al naso che mi squadrano dall’alto in basso snocciolando le perle delle loro collane tra le dita. Devo essere arrivato davvero tardi perché sui buffet e sui tavoli ci sono soli dolci e io mi ci tuffo, affamato come sono, attirando gli sguardi sempre più altezzosi delle signore che abbandonano la sala brontolando, lasciandomi lì da solo. Di Anton neanche l’ombra. Nella stanza attigua c’è una ragazza dietro a un bancone di cristallo che invita tutti ad avvicinarsi per ammirare le sue pietre preziose. Sono diamanti, topazi, smeraldi e zirconi. Ognuno si avvicina, ne aspira due o tre a mo’ di cocaina e di seguito s’infila uno specchietto tondo nella narice per riuscire a vedere le pietre dall’interno come con una lente d’ingrandimento. Mi avvicino curioso e la ragazza mi fa cenno di provare. Alla mia timida quanto inutile protesta -che no, quelle pietre sono troppo preziose per me- la ragazza risponde con uno sbuffo e un’alzata di spalle, facendomi sentire se possibile ancora più a disagio di prima. Lo faccio. Così, maldestramente prendo una grossa pietra turchese e me la infilo nella narice sinistra ma non riesco a tirar su il lentino tondo per vederlo bene dall’interno. Comincia a uscirmi sangue dal naso. Il turchese è troppo grosso e devo averlo tirato troppo su. Finalmente alle mie spalle arriva Anton. “Ma che stai facendo?” e mi aiuta lentamente a togliermi la pietra dalla narici, spingendo verso il basso sulle pinne del naso. Io ho paura di sporcarmi di sangue la camicia, ma riesco a raggiungere il bagno senza danni.

domenica 17 ottobre 2010

Luca (III parte)


“Dopo l’ho sognato, sai? Aveva un paio di bermuda bianchi e pure la maglietta era candida. Mi salutava dal marciapiede sull’altro lato della strada, ma era pieno di macchine che sfrecciavano tra noi e io non potevo attraversare. Proprio così, l’ho salutato anch’io con la mano e l’ho visto lentamente dissolvere di là dal marciapiede. Però ho notato che sorrideva”.
Il ragazzo non aveva mai parlato tanto con nessuno come con Luca. Parlavano di tutto, giorni e notti intere. Si capivano anche senza fiatare. Complici le droghe o la dolcezza innata di Luca, il ragazzo riusciva a sviscerare le sue più profonde paure, le sue più inconfessabili fantasie, i suoi desideri più nascosti. Amava, riamato, incondizionatamente. Per questo quando gli scoppiò la febbre ad agosto non si preoccupò più di tanto. Luca lo curò amorevolmente come al solito e quando la situazione peggiorò lo accompagnò al pronto soccorso e gli tenne la mano durante tutta la degenza e la convalescenza in ospedale. 
E sembrò così genuinamente sorpreso quando il dottore gli disse che il ragazzo aveva contratto l’HIV e che conveniva anche a lui fare il test. Fu l’ultima volta che i due si videro.  
Nel libricino di carta riciclata che gli fece arrivare in ospedale Luca confessò che non aveva mai fatto il test e non l’avrebbe mai fatto. Brevemente gli accennò a quel incontro di sesso a pagamento, la notte in cui aveva deciso di farla finita con l’overdose. Che l’uomo gli aveva promesso il doppio dei soldi se l’avessero fatto senza preservativo ma che poi quando avevano finito si era rimangiato la parola. Che lui si era incazzato di brutto e alla fine il sardo gli aveva sbattuto i soldi in faccia e gli aveva detto: “Tanto quello che ti dovevo dare te l’ho già dato”.

martedì 12 ottobre 2010

Luca (II parte)

La loro storia naturalmente andò avanti dopo quella sera. Il ragazzo imparò ad apprezzare l’autoironia di Luca che si tramutava facilmente in depressione. Luca lavorava in un negozio di abiti maschili in centro ma a sentire lui lavorava “sulla strada come una puttana”.
Adesso faceva il commesso nel negozio che prima era stato di sua proprietà. Aveva dovuto vendere le mura per pagarsi i debiti della droga. Aveva provato di tutto in una lenta e inesorabile escalation prima di arrivare all’ero.
“Così, un giorno, tanto per provare, con un amico in un sottoscala”.
Quella merda prima l’aveva mandato in paradiso, poi gli aveva fatto terra bruciata intorno. Senza più lavoro, né amici, né il sostegno della sua famiglia –la mamma e il fratello non gli avevano più rivolto la parola- la vita era diventata un tale inferno che aveva deciso di farla finita. Si era prostituito per tirare avanti e per mettere insieme i soldi dell’overdose che l’avrebbe mandato al creatore.
A fermarlo da quel proposito suicida era stata la morte di Marco, il suo compagno di pere, lo stesso che probabilmente gli aveva passato l’HIV. Marco s’era fatto fregare da una dose di G, un’altra droga chimica derivata dal detersivo per pulire i vetri che Luca fece provare al ragazzo con il contagocce e solo dopo avergli fatto un milione di raccomandazioni. Luca gli raccontò che Marco non era un pezzente come lui.
“Era un figlio di papà dell’alta borghesia milanese e aveva la paranoia di farsi beccare dalla pula. Per questo si faceva in casa prima di uscire, così in discoteca ci arrivava pulito e poteva sballarsi senza avere pensieri. Che tanto c’erano sempre gli amici fidati a soccorrerlo se si sentiva male. Eggià. Fidati un cazzo” sbottò Luca.
“Quelli andavano solo dietro ai suoi soldi. E che non lo sapeva pure lui secondo te? Solo che come tutti i ricchi Marco se la cantava e se la suonava, negando la verità anche a se stesso” continuò.
“Non lo sentivo da una settimana ma lui viaggiava spesso e non era così strano. E poi se ne stava spesso per i cavoli suoi. Scriveva. Ma quella sera era l’ultimo sabato di ottobre e Marco non si sarebbe perduto lo sballo di Halloween per niente al mondo. Lo chiamai. Lo messaggiai. Andai a suonargli al citofono. Niente. I pompieri dovettero sfondare la porta con l’accetta. Lo trovammo là. Nudo nella vasca da bagno con le mosche morte nel bicchiere con il G. Se n’era versata una dose troppo forte nel succo d’arancia o non lo so, forse una sincope, un collasso. O forse è solo scivolato nella vasca, ha sbattuto la testa e c’è rimasto. Annegato in 20 centimetri d’acqua. Ma si può?”
Luca gli disse che lui l’aveva amato Marco e non per i suoi soldi. Non aveva mai voluto accettarli tant’è che aveva dovuto vendersi il negozio. Amava la sua ingenuità, la sua integrità morale, la sua incrollabile fiducia nell’amicizia. Marco gli aveva scritto un sms il giorno dopo che si erano conosciuti. Poche parole, come era nel suo stile: “L’amicizia è una questione di chimica. Come la nostra.”
“L’amore no. Marco non ci credeva.”
 Luca aveva anche provato a fidanzarsi con lui, ma era durata poco. Il sesso andava alla grande –l’amico aveva un cazzone da negro- ma a Marco piacevano più giovani, molto più giovani di lui.
“Forse perché inconsciamente voleva essere per loro il padre che lui non aveva mai avuto.”
In un raro momento di debolezza aveva confessato a Luca che l’unica carezza che aveva ricevuto era stata quando il padre gli aveva teso la pelle del viso per mostrargli come radersi.
Non ne parlarono mai più. Faceva parte delle regole non scritte della loro amicizia.
“Per gli amici Marco si sarebbe fatto uccidere. Si dava senza limiti ma in cambio esigeva tanto, tantissimo. Non tutti lo capivano e quando avevano finito di sfruttare i suoi soldi lo mollavano per un altro più ricco. Lui soffriva immensamente e per la delusione si chiudeva in casa per un mese. Poi dava una festa d’addio e cambiava città. Ogni volta s’illudeva che fosse quella la città giusta per lui. Milano, Roma, Amsterdam, Londra, Parigi, Barcellona, New York, Sidney. Dove non andò. E ogni volta la città giusta era la prossima.”
Luca gli era stato dietro finché non aveva potuto più seguirlo.

domenica 10 ottobre 2010

Luca


Tra Goldie e le pillole c’era stato Luca. Quando la loro storia era finita, Luca aveva scritto una lettera al ragazzo. O per meglio dire un libricino pieno di pagine colorate in carta riciclata.
“Ti ho amato tanto.” Finiva così. Con un passato prossimo che al ragazzo sembrava ormai così remoto. A stento ricordava che faccia avesse Luca. Menomale che su una pagina di carta color ocra c’era incollata quella foto di loro due seduti fuori a quel pub di Londra. Di quella luna di miele ricordava solo la domenica pomeriggio passata al G.A.Y. Più salivano le scale della discoteca più le vetrate si appannavano dei sudori, gli umori e gli odori di tutti quei ragazzi. Erano due ragazzi anche loro. Due bei ragazzi innamorati pazzi. Lo ricordava come se Luca fosse lì davanti a lui. Quel suo modo delicato e sensuale di inumidirsi le labbra: un rapido saettare della lingua sotto i baffetti sottili e morbidi da adolescente.
Le sue gambe forti, temprate dallo step. Che sesso gli faceva!
E la dolcezza e il suo incredibile romanticismo che trapelava anche in mezzo al dolore di quelle righe scritte a pennarello nero e sbavate dalle lacrime.
Chissà dov’era Luca in quel momento. Se davvero era andato in America come gli aveva scritto.
New York, Los Angeles, San Francisco. Chissà se l’avrebbe incontrato da qualche parte nel suo viaggio. Chissà se almeno Luca era riuscito a trovarlo il grande amore laggiù, nella terra promessa dei gay. Di sicuro non era stato lui il fortunato. Il loro amore era stato travagliato, ma forse proprio per questo indimenticabile. Anche Luca aveva perduto il padre d’infarto. E anche lui per sfuggire a quel dolore immenso si era perso dietro a false promesse e amicizie sbagliate. Si erano conosciuti in pista allo Shocking di Milano a un after-hour durante le feste di Pasqua. Luca era fuorissimo. Eppure a differenza dei suoi amici di sballo che si scatenavano in modo violento e onanistico, la droga in Luca accentuava il suo lato romantico. Aveva cominciato ad accarezzare i capelli del ragazzo ogni volta che passava sotto il cubo su cui lui ballava mettendo in evidenza i suoi addominali perfetti e le sue gambe muscolose –era a petto nudo e aveva solo un pantaloncino corto di pelle addosso-. A un tratto il ragazzo se l’era ritrovato di fianco. Luca l’aveva preso dolcemente per mano, s’era inumidito i baffetti con la lingua e gli aveva chiesto: “Sei pronto per il moon-walk?”
Il ragazzo l’aveva fissato con sguardo interrogativo e aveva riconosciuto l’effetto della droga nell’eccessiva dilatazione delle pupille che nascondeva quasi completamente il bel colore nocciola dei suoi occhi. Sapeva che agli after si faceva largo uso di droghe cosiddette ricreative, ma lui non aveva mai preso niente -sì e no si era fatto qualche canna insieme a Silvia- e non voleva cominciare proprio allora. Suo padre era morto da meno di un mese. Sua madre era caduta in una terribile depressione. Non faceva che piangere e il ragazzo si sentiva profondamente in colpa per averla lasciata a casa da sola mentre lui era là che si divertiva. Quando Luca gli mostrò il bullet con la special-key già carico per fare un tiro il ragazzo non capì. Ma a Luca sembrò che facesse solo finta e con estrema dolcezza lo trascinò in bagno con sé. Il ragazzo lo seguì docilmente, sereno e ignaro come un vitello al macello. Luca conosceva tutti lì dentro, buttafuori compresi. Non gli fu difficile raggiungere il bagno degli handicappati e farselo aprire dalla vecchia donna delle pulizie. Le fece scivolare nella tasca del grembiule azzurro un paio d’euro e lei gli fece l’occhiolino.
Una volta dentro, Luca si inumidì nuovamente le labbra e lo baciò a lungo, teneramente.
Il ragazzo fu conquistato dal suo atteggiamento deciso e dalle sue labbra carnose e umide. Decise di fidarsi e quando Luca fece un tiro di Key e ricaricò il bullet per lui, lo imitò senza fiatare. Il ritorno dal bagno al cubo al centro della pista fu molto più lungo, lento e faticoso dell’andata. Ma incredibilmente bello. Luca incedeva a ritmo di musica davanti a lui, tenendolo stretto per mano. Ogni tanto si voltava per vedere come stava, s’inumidiva le labbra e lo baciava. Il ragazzo lo seguiva fedelmente a passi lunghi, molleggiati e leggeri, come se camminasse sulla luna. Al loro passaggio gli sembrava che quella folla di corpi che si dimenavano come ossessi al ritmo della musica house d’improvviso si aprisse come le acque del Nilo davanti a Mosè. Quando alla fine di quel viaggio ritornarono lì dove si erano conosciuti, il ragazzo pensò che fosse passata un’eternità e capì perché Luca l’avesse chiamato “moon-walk”. Gli effetti dell’anestetico per cavalli che avevano sniffato durò per un bel po’ specialmente per il ragazzo che non l’aveva mai provato prima. Luca fu il suo angelo custode per tutta la notte. Esistevano soltanto loro due e potevano sentire i loro cuori battere all’unisono. Quando il ragazzo si svegliò nel letto di Luca con la mano intrecciata alla sua, gliene fu grato. E quando scoprì che Luca spacciandosi per lui aveva inviato dal suo cellulare un sms alla mamma per rassicurarla che stava bene ma che avrebbe dormito a casa di un amico quella notte perché avevano fatto tardi e non se la sentiva di guidare, il ragazzo non si infuriò. Non sapeva se Luca lo amava ma aveva un disperato bisogno che qualcuno si prendesse cura di lui. E si affidò a lui senza riserve.