martedì 16 novembre 2010

Andrew (IV parte)

In aereo faceva freddo. L’aria condizionata pompava al massimo, come al solito. Ma al ragazzo proprio non andava di svegliarsi, chiedere permesso alla cicciona stravaccata sul sedile di fianco al suo, aprire la cappelliera ed estrarre dallo zaino quella fottuta felpa col cappuccio che, non si sa com’è, riusciva a infilarsi sempre in fondo a tutto. Ma non gli andava neppure di resistere oltre a quella temperatura glaciale. Aveva la pelle d’oca. Si guardò i bicipiti muscolosi, gli avambracci un po’ troppo pelosi per i suoi gusti ma molto maschi, non c’era che dire, e i due braccialetti a molla che gli aveva regalato quel nero coi dreads nella piazza davanti a Notre Dame nel tentativo di scroccargli qualche monetina. E sorrise nel dormiveglia. Quei braccialetti in fondo gli piacevano, anche se non erano esattamente il suo genere. Anche se alcune perline nella sequenza dei rosso-giallo-nero-verde della bandiera jamaicana avevano perso colore e stavano diventando bianche come vecchie mentine ciucciate, gli piacevano. Gli piaceva anche la sua Fred Perry arancione con la coroncina bianca sul capezzolo sinistro che faceva pendant con i bermuda candidi al ginocchio. Gli piaceva anche come gli stava al polso il suo Tag Hauer, appena ricevuto come regalo di laurea: faceva così chic, anche se non aveva capito ancora come cazzo si pronunciava. Anche il suo nuovo look col pizzetto sale e pepe sul viso un po’ abbronzato gli piaceva. Insomma si piaceva un sacco con quella sua aria da bravo ragazzo, da uomo di mondo, da uno che ha viaggiato, che ha vissuto qua e là per un po’, ha conosciuto un po’ di gente e solo per quello crede già di sapere come gira il mondo. Si piaceva con quel fisico asciutto, l’aria elegante e quel suo modo di muoversi da gay adulto, risolto e come si dice sdoganato? Sì proprio così e già che c’era poteva sdoganare pure la puzzetta al naso da cittadino del Vecchio Continente, una volta sbarcato in America.
Per non parlare di quel ragazzo coi capelli rasati, il nasone, gli occhialoni a mascherina, gli auricolari dell’i-phone –bianchi pure quelli- ficcati nelle orecchie e il tatuaggio tribale –Maori, si dice così?- che gli tagliava a metà il polpaccio per il lungo e gli si avvolgeva a cerchio sul mallelolo –gli avrà fatto male?- pure quello gli piaceva un sacco. Ma era meglio non pensarci sennò gli veniva duro e doveva andare a farsi una pippa in bagno. E il bagno dell’aereo si sa non è poi così comodo. Eppoi faceva un freddo cane…
Si voltò in cerca di una hostess e vide quel businessman segaligno seduto dall’altra parte del corridoio col suo completo verde cacca, i lacci sporchi di cromatina mal tirata e quegli imperdibili, imperdonabili calzini azzurrini! Che orrore, pensò il ragazzo. Meglio concentrarsi sulla battuta da fare alla hostess sull’aria condizionata, l’era glaciale e via discorrendo. Chissà che effetto farà a quella bionda dai begli occhioni blu che continua a sculettare avanti e indietro per tutto il corridoio con quella sua aria da teutone sfigata che gli sta così sul cazzo. Lei come da copione sgambetta fino alla sua poltrona, spegne la lucetta intermittente di chiamata con un gesto rapido e meccanico che non riesce tuttavia a nascondere una certa dose di fastidio e si sforza di sorridergli. Ma ci riesce solo a metà: con la bocca. Gli occhi li tiene fissi sulla tua polo con la coroncina bianca, i tuoi bermuda bianchi, i tuoi denti bianchi e il tuo pizzetto bianco. Ma poi ti manda quel frocetto del capocabina, pensando che con i suoi modi da frocio consumato e la sua parlata affettata ti capisca meglio e tu la finisca di rompere i coglioni. Invece la cosa ti fa solo incazzare di più. Ma a te piace troppo mostrarsi educato ed elegante per fare una scenata. E poi guardalo come ti osserva. Ti si farebbe così su due piedi, anche nel bagno dell’aereo. Anzi forse lì si eccita di più e chissenefrega se si sta stretti, tanto in ginocchio ci finirebbe lui e alla fine non dovresti neppure tirare lo sciacquone. Che con quelle mani sottili e ben curate, seghe e pompini devono essere la sua specialità -altro che Irina Palm-. E il cazzo che ti stava già venendo duro, facendo capolino da sotto la tela bianca dei bermuda se ne va giù e scompare nelle mutande. Così finisce che gli dici che non fa niente, che adesso va meglio e ti riaccoccoli nella tua poltrona. Lui ti sorride coi suoi denti bianchi e dal taschino della camicia bianca tira fuori il suo biglietto da visita col suo cellulare scritto sul retro, “per qualsiasi cosa ti possa servire nella Grande Mela… Daniel Sanchez, ma tu chiamami Dan.”
Lo lasci andare, poi chiedi permesso alla cicciona, ti alzi e vai a chiuderti in bagno.
Tiri fuori la pallina di coca dalla tasca dei bermuda e col biglietto da visita di Dan ti stendi due righe bianche sull’asse del cesso e tiri, coperto dal rumore dello sciacquone, mentre il tuo aereo infila un banco di nembi nel cielo sopra New York.
“Grazie Dan, ma ho tutto quello che mi serve”.

mercoledì 10 novembre 2010

Andrew (III parte)

Finalmente eccolo lì il proprietario che chiacchierava tranquillamente del più e del meno con un attempato uomo gay, vagamente effeminato come tutti quelli della sua generazione.
Il ragazzo salutò, ma anche stavolta nessuno sembrò fargli caso. Strano, pensò. Non aveva notato telecamere di sorveglianza né lì né al piano di sopra. Chiunque avrebbe potuto arraffare qualsiasi cosa e andarsene via indisturbato, per quanto ne sapeva lui. Possibile che il proprietario fosse così sicuro dell’onestà dei suoi clienti da non preoccuparsi di chi entrava e di cosa faceva? Eppure neanche adesso gli stava prestando attenzione, nonostante il ragazzo fosse lì a rovistare in ogni angolo del negozio, toccando e spostando oggetti di ogni tipo: delicati, fragili, alcuni persino antichi e preziosi.
L’uomo gay -anzi l’omosessuale come si chiamano tutti quelli sulla cinquantina come lui- però lo aveva notato. Continuava a gettargli occhiate melliflue e a tratti, almeno così gli pareva, inequivocabilmente interessate. Non se lo stava immaginando. Non era uno dei suoi sogni ad occhi aperti, quello. Lui era lì in carne ed ossa, ne era certo. Ma per un uomo era trasparente, un essere inanimato come un qualunque oggetto in esposizione nel negozio: praticamente un uomo invisibile. Per l’altro invece era l’oggetto del desiderio. Era solo il testosterone a renderlo visibile? Solo il richiamo irresistibile del sesso lo faceva realmente esistere?
“Coito ergo sum” pensò il ragazzo e sorrise affettatamente, fissando il vecchio omosessuale nelle palle degli occhi, mentre s’infilava un grosso fermaporte di bronzo nella tasca del maxi-giubbotto blu e se ne andava, stavolta senza salutare nessuno. Aveva preso la prima cosa che gli era capitata a tiro, così per gioco, giusto per vedere cosa succedeva. Se era l’uomo invisibile, quello era il momento di provarlo. L’omosessuale rallentò impercettibilmente il ritmo della sua mielosa cantilena all’erre moscia con il suo amico antiquario, allungando giusto le pause tra tutti quei super, pà-de-qua e parole-varie-con-l’accento-sulla-a che infarcivano il discorso e faceva venire la pecolla al ragazzo, ma non disse nulla. Lo guardò e basta mentre rubava quel fermaporte, senza osare far nulla.
Che quello fosse uno sguardo complice, pietoso, riprovevole o accusatorio, lui non avrebbe saputo dirlo ma aveva imparato l’ennesima lezione sui gay e su se stesso. Stringendo forte la refurtiva in tasca mentre correva giù per le scale della metropolitana di Parigi e poi su per la scaletta dell’aereo che l’avrebbe portato a New York, il ragazzo poteva affermare con la sicumera tipica di tutti i giovani che si sentono invincibili –o forse invisibili- di aver provato un inconfessabile piacere a rubare qualcosa per la prima volta in vita sua. Ma soprattutto doveva confessare a se stesso di aver provato un segreto e immenso piacere nel vedere come quel vecchio frocio lo aveva lasciato fare. Nonostante fosse stato testimone oculare di un furto, quell’uomo schiavo del desiderio, succube del testosterone, vittima del sesso aveva preferito chiudere entrambi gli occhi piuttosto che accusare un suo simile, anche se era chiaro che il ragazzo non sarebbe mai stato una preda possibile per lui. Né possibile né tantomeno probabile: troppo giovane, troppo sexy, troppo bello per essere vero. Almeno per un vecchio omosessuale come lui.

martedì 9 novembre 2010

Andrew (II parte)



Dopo la tesi il ragazzo prese il suo volo per New York. Con stop-over a Parigi. C’era già stato da bambino con la famiglia e poi da adolescente in gita con la scuola ma non si sarebbe perduto per nulla al mondo la possibilità di rivedere la ville lumiere finalmente solo. Amava viaggiare da solo. Più che viaggiare per la verità amava perdersi. Girare a vuoto, senza meta, senza mappe, senza chiedere indicazioni a nessuno. Andava in giro per le strade muto, ma con le orecchie e gli occhi ben aperti: finestre spalancate sul mondo da cui lasciava entrare fiumi di voci e ondate di vita. La vita degli altri.
Ogni suono, ogni immagine portava con sé manciate di ricordi, come legnetti trascinati a riva dalla corrente. Lui osservava ogni cosa, ogni persona con un’attitudine così famelica, con un desiderio così palpitante di vita da risultare dolorosamente palpabile, tanto che a volte ne provava disagio lui stesso. Sentiva spesso quella indescrivibile sensazione come di vergogna, specialmente quando viaggiava nei paesi del nord Europa: dalla Francia, all’Olanda, alla Svezia. Si domandava se quel suo modo così bramoso di osservare o meglio di fagocitare la vita degli altri non fosse troppo eccessivo, scortese, sfacciato… se non potesse risultare addirittura sgradito agli occhi di quei popoli così riservati e tranquilli, così stranamente silenziosi in confronto agli italiani come lui. Ma invece nessuno pareva accorgersene. Gli sembrava incredibile, eppure la gente non faceva caso a lui e tanto meno al suo disagio e col tempo si convinse che era proprio quel suo modo di viaggiare da solo, col suo zainetto sulle spalle e i suoi segreti chiusi dentro, a renderlo invisibile.
Quella volta a Parigi volle fare un esperimento. Entrò in un negozio di chincaglierie all’estrema periferia della città: un robivecchi che una volta doveva essere stato pure un antiquario come dichiarava la pomposa insegna in legno dorato affissa sulla porta; ma ormai vendeva solo cornici orbe e oggetti di rame polverosi in mezzo a pile di pellicce tarlate e maleodoranti. Il fischio registrato di un uccello non meglio identificato lo sorprese all’ingresso e gli strappò un sorriso: il tono garrulo e la modulazione del suono che gli dette il benvenuto appena aprì la porta e fece scattare il meccanismo, gli ricordò il fischio di apprezzamento che i ragazzotti siciliani facevano all’arrivo di Monica Bellucci in Malena, il film che aveva visto in dvd proprio la sera prima di partire, per distendersi i nervi prima della tesi. Si guardò allo specchio nella cornice di legno ovale di fronte alla porta del negozio e sorrise tra sé osservando la differenza tra il suo corpo da ragazzone, reso goffo dal giubbotto blu oversize e dallo zainetto, e le forme sinuose della Bellucci in gonna stretta e tacchi alti che incedeva sculettando sul selciato sconnesso del lungomare di quel paesino siciliano del dopoguerra. Forse gli scappò anche una risata ma -di questo ne era certo- pronunciò un sonoro “Bonjour” per annunciarsi con garbo al proprietario del negozio che non vedeva, ma doveva ben essere lì da qualche parte. Eppure nessuno si accorse di lui. Dopo una decina di minuti buoni, spesi a passare in rassegna ogni oggetto del primo piano del negozio, il suo interesse gradatamente scemò fino a scomparire del tutto alla vista di quell’inquietante falco impagliato, appollaiato sulla ringhiera di ferro in cima alle scale. Così decise di scendere a dare un’occhiata al seminterrato, da dove proveniva un cicaleccio ovattato.

giovedì 4 novembre 2010

Andrew (I parte)

Arrivò il giorno della tesi. Il ragazzo aveva indossato l’abito in fresco di lana blu di Romeo Gigli. La camicia a sottili righe rosse sotto la giacca con il colletto sbottonato gli dava un’aria elegante ma informale, adatta a sottolineare, sdrammatizzandola, la solennità dell’occasione. Aveva voluto che la madre, il fratello e la sua migliore amica partecipassero alla discussione della tesi. Silvia aveva compreso la solennità che l’amico voleva dare a quella prima conclusione positiva della sua vita. In effetti il ragazzo aveva scelto un taglio originale alla sua tesi che oltre a una parte teorica consisteva nella creazione di una vera e propria campagna pubblicitaria per il lancio di una linea di giubbotti e tute da sci per bambini. Aveva voluto combinare l’arte alla moda sportiva, rappresentandola con i colori dei quadri di pittori moderni e con citazioni di scrittori contemporanei, quelli che lui più amava. Voleva affermare l’attualità dell’arte e l’artisticità che doveva avere la moda, anche quella sportiva per i più piccoli. Così nella campagna stampa le tinte di Kandinskij coloravano la tuta del piccolo sciatore inclinato nell’approccio al kristiana Nello spot tv la voce del suo amico attore citava gli slogan di Magritte. Il marchio fantasioso di “KROMICK” si stagliava deciso, irradiando nel sole centrale della “O” ovalizzata come la terra all’equatore, gli schizzi stilizzati dei colori di Kandinskij sulla neve candida. Il ragazzo presentava puntuale e con tono deciso la sua strategia creativa e le sue idee. I frutti della sua ricerca intellettuale e della sua formazione classica echeggiavano nella grafica elegante del marchio e nell’accurata scelta dei colori per i giubbotti e le tute da sci. Lo stile della campagna risultava estremamente raffinato, fin troppo alto per un pubblico di consumatori così giovani e disinformati sull’arte moderna, e forse anche per quella platea di esaminatori goffi e appiattiti nel tipico atteggiamento distratto e svogliato dei vecchi accademici. Silvia che aveva seguito passo passo la preparazione della tesi e condiviso tutto l’entusiasmo e la passione che ci aveva messo, giudicò sprecato l’amore per la cultura, la ricerca di conoscenza e la spiritualità dell’amico, di fronte alle facce assenti della commissione. Ma tutto quello per il ragazzo rappresentava una rivalsa sui passi incerti della sua nuova vita a Roma e sulla sua precedente esperienza da atleta. Voleva mostrare a tutti la sua maturità di laureando. 
Alla fine aveva suscitato il plauso un po’ invidioso e meravigliato di tutta la commissione, meritandosi la lode. Finalmente soddisfatto si mostrava raggiante ai suoi cari. Il fratello sempre contenuto nel manifestare i suoi sentimenti, gli riconobbe con affetto di averlo superato sul traguardo degli studi –lui era tre anni fuori corso in Ingegneria Elettronica -. La mamma nel suo vestito con i risvolti bianchi alla marinara, piccola di fianco a lui così alto, se lo teneva  abbracciato. Silvia si godeva la sua soddisfazione e quella della sua famiglia.

mercoledì 27 ottobre 2010

Sogno n°6


Sto riposando nel giardino di una villa. Enorme e perfettamente curato. Alla testa della siepe che borda ogni aiuola d’erba rasata di fresco, c’è un alberello dal tronco sottile e la chioma dalla forma perfettamente sferica, sagomata da cesoie esperte. Io sono appoggiato con la nuca a uno di queste soffici sfere verdi. Ma invece di essere verdi come le foglioline di pitosforo che le compongono, queste sfere sono fatte di piume color indaco. Non blu, non viola, ma proprio color indaco: quello che si vede solo nell’arcobaleno. Sono le piume degli uccelli del Paradiso -quella specie tropicale dalla lunga coda e dalla crestina vellutata- che hanno scelto le sfere scolpite nel giardino all’italiana della villa per farci il loro nido. Davanti a me c’è un distesa a perdita d’occhio di nidi indaco morbidi e lisci come velluto. E’ bellissimo mi dico, ma poi penso che insieme alle piume avrò i capelli pieni dei loro escrementi. E infatti mi alzo e mi tocco i capelli con disgusto: in effetti ho la testa piena di piccole larve bianche e ho voglia di lavarmi i capelli. Devo trovare dell’acqua, un bagno e anche se a malincuore, devo abbandonare la tranquillità di quel parco e la bellezza di quella splendida vista. C’è un treno che mi aspetta. Un lussuosissimo treno di sola prima classe, tipo Orient Express. Il capotreno ha già fischiato e devo affrettarmi a salire. Appena sono su, trovo il bagno e mi lavo la testa tutto contento. Il treno vola letteralmente sopra la città come quelli a monorotaia che si vedono solo in Giappone o nei film di fantascienza. Dai finestrini ampi e spaziosi vedo sfilare a gran velocità i tetti di Milano, le guglie del Duomo e poi Venezia, Bruges, Amsterdam in rapida successione finché il treno fa una breve sosta per il pranzo in Belgio. Di colpo fuori dalla carrozza ristorante appare un patio pieno di piante, coperto da una tenda e illuminato dalla luce di decine di candele che tremolano alla leggera brezza della sera. E’ tutto più che perfetto! E di colpo il sogno cambia.
Scendo dal treno in aperta campagna, nelle vicinanze di Palermo. Le rotaie confinano con il parco della villa di una nobildonna amica di Antonemilio. Ma io devo essere arrivato in ritardo e lui non è lì ad aspettarmi. Al suo posto incontro quell’invidioso di Nello e la cosa mi mette a disagio. Per di più intorno a me è tutto un brulicare di super nobilone con la puzza sotto al naso che mi squadrano dall’alto in basso snocciolando le perle delle loro collane tra le dita. Devo essere arrivato davvero tardi perché sui buffet e sui tavoli ci sono soli dolci e io mi ci tuffo, affamato come sono, attirando gli sguardi sempre più altezzosi delle signore che abbandonano la sala brontolando, lasciandomi lì da solo. Di Anton neanche l’ombra. Nella stanza attigua c’è una ragazza dietro a un bancone di cristallo che invita tutti ad avvicinarsi per ammirare le sue pietre preziose. Sono diamanti, topazi, smeraldi e zirconi. Ognuno si avvicina, ne aspira due o tre a mo’ di cocaina e di seguito s’infila uno specchietto tondo nella narice per riuscire a vedere le pietre dall’interno come con una lente d’ingrandimento. Mi avvicino curioso e la ragazza mi fa cenno di provare. Alla mia timida quanto inutile protesta -che no, quelle pietre sono troppo preziose per me- la ragazza risponde con uno sbuffo e un’alzata di spalle, facendomi sentire se possibile ancora più a disagio di prima. Lo faccio. Così, maldestramente prendo una grossa pietra turchese e me la infilo nella narice sinistra ma non riesco a tirar su il lentino tondo per vederlo bene dall’interno. Comincia a uscirmi sangue dal naso. Il turchese è troppo grosso e devo averlo tirato troppo su. Finalmente alle mie spalle arriva Anton. “Ma che stai facendo?” e mi aiuta lentamente a togliermi la pietra dalla narici, spingendo verso il basso sulle pinne del naso. Io ho paura di sporcarmi di sangue la camicia, ma riesco a raggiungere il bagno senza danni.

domenica 17 ottobre 2010

Luca (III parte)


“Dopo l’ho sognato, sai? Aveva un paio di bermuda bianchi e pure la maglietta era candida. Mi salutava dal marciapiede sull’altro lato della strada, ma era pieno di macchine che sfrecciavano tra noi e io non potevo attraversare. Proprio così, l’ho salutato anch’io con la mano e l’ho visto lentamente dissolvere di là dal marciapiede. Però ho notato che sorrideva”.
Il ragazzo non aveva mai parlato tanto con nessuno come con Luca. Parlavano di tutto, giorni e notti intere. Si capivano anche senza fiatare. Complici le droghe o la dolcezza innata di Luca, il ragazzo riusciva a sviscerare le sue più profonde paure, le sue più inconfessabili fantasie, i suoi desideri più nascosti. Amava, riamato, incondizionatamente. Per questo quando gli scoppiò la febbre ad agosto non si preoccupò più di tanto. Luca lo curò amorevolmente come al solito e quando la situazione peggiorò lo accompagnò al pronto soccorso e gli tenne la mano durante tutta la degenza e la convalescenza in ospedale. 
E sembrò così genuinamente sorpreso quando il dottore gli disse che il ragazzo aveva contratto l’HIV e che conveniva anche a lui fare il test. Fu l’ultima volta che i due si videro.  
Nel libricino di carta riciclata che gli fece arrivare in ospedale Luca confessò che non aveva mai fatto il test e non l’avrebbe mai fatto. Brevemente gli accennò a quel incontro di sesso a pagamento, la notte in cui aveva deciso di farla finita con l’overdose. Che l’uomo gli aveva promesso il doppio dei soldi se l’avessero fatto senza preservativo ma che poi quando avevano finito si era rimangiato la parola. Che lui si era incazzato di brutto e alla fine il sardo gli aveva sbattuto i soldi in faccia e gli aveva detto: “Tanto quello che ti dovevo dare te l’ho già dato”.

martedì 12 ottobre 2010

Luca (II parte)

La loro storia naturalmente andò avanti dopo quella sera. Il ragazzo imparò ad apprezzare l’autoironia di Luca che si tramutava facilmente in depressione. Luca lavorava in un negozio di abiti maschili in centro ma a sentire lui lavorava “sulla strada come una puttana”.
Adesso faceva il commesso nel negozio che prima era stato di sua proprietà. Aveva dovuto vendere le mura per pagarsi i debiti della droga. Aveva provato di tutto in una lenta e inesorabile escalation prima di arrivare all’ero.
“Così, un giorno, tanto per provare, con un amico in un sottoscala”.
Quella merda prima l’aveva mandato in paradiso, poi gli aveva fatto terra bruciata intorno. Senza più lavoro, né amici, né il sostegno della sua famiglia –la mamma e il fratello non gli avevano più rivolto la parola- la vita era diventata un tale inferno che aveva deciso di farla finita. Si era prostituito per tirare avanti e per mettere insieme i soldi dell’overdose che l’avrebbe mandato al creatore.
A fermarlo da quel proposito suicida era stata la morte di Marco, il suo compagno di pere, lo stesso che probabilmente gli aveva passato l’HIV. Marco s’era fatto fregare da una dose di G, un’altra droga chimica derivata dal detersivo per pulire i vetri che Luca fece provare al ragazzo con il contagocce e solo dopo avergli fatto un milione di raccomandazioni. Luca gli raccontò che Marco non era un pezzente come lui.
“Era un figlio di papà dell’alta borghesia milanese e aveva la paranoia di farsi beccare dalla pula. Per questo si faceva in casa prima di uscire, così in discoteca ci arrivava pulito e poteva sballarsi senza avere pensieri. Che tanto c’erano sempre gli amici fidati a soccorrerlo se si sentiva male. Eggià. Fidati un cazzo” sbottò Luca.
“Quelli andavano solo dietro ai suoi soldi. E che non lo sapeva pure lui secondo te? Solo che come tutti i ricchi Marco se la cantava e se la suonava, negando la verità anche a se stesso” continuò.
“Non lo sentivo da una settimana ma lui viaggiava spesso e non era così strano. E poi se ne stava spesso per i cavoli suoi. Scriveva. Ma quella sera era l’ultimo sabato di ottobre e Marco non si sarebbe perduto lo sballo di Halloween per niente al mondo. Lo chiamai. Lo messaggiai. Andai a suonargli al citofono. Niente. I pompieri dovettero sfondare la porta con l’accetta. Lo trovammo là. Nudo nella vasca da bagno con le mosche morte nel bicchiere con il G. Se n’era versata una dose troppo forte nel succo d’arancia o non lo so, forse una sincope, un collasso. O forse è solo scivolato nella vasca, ha sbattuto la testa e c’è rimasto. Annegato in 20 centimetri d’acqua. Ma si può?”
Luca gli disse che lui l’aveva amato Marco e non per i suoi soldi. Non aveva mai voluto accettarli tant’è che aveva dovuto vendersi il negozio. Amava la sua ingenuità, la sua integrità morale, la sua incrollabile fiducia nell’amicizia. Marco gli aveva scritto un sms il giorno dopo che si erano conosciuti. Poche parole, come era nel suo stile: “L’amicizia è una questione di chimica. Come la nostra.”
“L’amore no. Marco non ci credeva.”
 Luca aveva anche provato a fidanzarsi con lui, ma era durata poco. Il sesso andava alla grande –l’amico aveva un cazzone da negro- ma a Marco piacevano più giovani, molto più giovani di lui.
“Forse perché inconsciamente voleva essere per loro il padre che lui non aveva mai avuto.”
In un raro momento di debolezza aveva confessato a Luca che l’unica carezza che aveva ricevuto era stata quando il padre gli aveva teso la pelle del viso per mostrargli come radersi.
Non ne parlarono mai più. Faceva parte delle regole non scritte della loro amicizia.
“Per gli amici Marco si sarebbe fatto uccidere. Si dava senza limiti ma in cambio esigeva tanto, tantissimo. Non tutti lo capivano e quando avevano finito di sfruttare i suoi soldi lo mollavano per un altro più ricco. Lui soffriva immensamente e per la delusione si chiudeva in casa per un mese. Poi dava una festa d’addio e cambiava città. Ogni volta s’illudeva che fosse quella la città giusta per lui. Milano, Roma, Amsterdam, Londra, Parigi, Barcellona, New York, Sidney. Dove non andò. E ogni volta la città giusta era la prossima.”
Luca gli era stato dietro finché non aveva potuto più seguirlo.

domenica 10 ottobre 2010

Luca


Tra Goldie e le pillole c’era stato Luca. Quando la loro storia era finita, Luca aveva scritto una lettera al ragazzo. O per meglio dire un libricino pieno di pagine colorate in carta riciclata.
“Ti ho amato tanto.” Finiva così. Con un passato prossimo che al ragazzo sembrava ormai così remoto. A stento ricordava che faccia avesse Luca. Menomale che su una pagina di carta color ocra c’era incollata quella foto di loro due seduti fuori a quel pub di Londra. Di quella luna di miele ricordava solo la domenica pomeriggio passata al G.A.Y. Più salivano le scale della discoteca più le vetrate si appannavano dei sudori, gli umori e gli odori di tutti quei ragazzi. Erano due ragazzi anche loro. Due bei ragazzi innamorati pazzi. Lo ricordava come se Luca fosse lì davanti a lui. Quel suo modo delicato e sensuale di inumidirsi le labbra: un rapido saettare della lingua sotto i baffetti sottili e morbidi da adolescente.
Le sue gambe forti, temprate dallo step. Che sesso gli faceva!
E la dolcezza e il suo incredibile romanticismo che trapelava anche in mezzo al dolore di quelle righe scritte a pennarello nero e sbavate dalle lacrime.
Chissà dov’era Luca in quel momento. Se davvero era andato in America come gli aveva scritto.
New York, Los Angeles, San Francisco. Chissà se l’avrebbe incontrato da qualche parte nel suo viaggio. Chissà se almeno Luca era riuscito a trovarlo il grande amore laggiù, nella terra promessa dei gay. Di sicuro non era stato lui il fortunato. Il loro amore era stato travagliato, ma forse proprio per questo indimenticabile. Anche Luca aveva perduto il padre d’infarto. E anche lui per sfuggire a quel dolore immenso si era perso dietro a false promesse e amicizie sbagliate. Si erano conosciuti in pista allo Shocking di Milano a un after-hour durante le feste di Pasqua. Luca era fuorissimo. Eppure a differenza dei suoi amici di sballo che si scatenavano in modo violento e onanistico, la droga in Luca accentuava il suo lato romantico. Aveva cominciato ad accarezzare i capelli del ragazzo ogni volta che passava sotto il cubo su cui lui ballava mettendo in evidenza i suoi addominali perfetti e le sue gambe muscolose –era a petto nudo e aveva solo un pantaloncino corto di pelle addosso-. A un tratto il ragazzo se l’era ritrovato di fianco. Luca l’aveva preso dolcemente per mano, s’era inumidito i baffetti con la lingua e gli aveva chiesto: “Sei pronto per il moon-walk?”
Il ragazzo l’aveva fissato con sguardo interrogativo e aveva riconosciuto l’effetto della droga nell’eccessiva dilatazione delle pupille che nascondeva quasi completamente il bel colore nocciola dei suoi occhi. Sapeva che agli after si faceva largo uso di droghe cosiddette ricreative, ma lui non aveva mai preso niente -sì e no si era fatto qualche canna insieme a Silvia- e non voleva cominciare proprio allora. Suo padre era morto da meno di un mese. Sua madre era caduta in una terribile depressione. Non faceva che piangere e il ragazzo si sentiva profondamente in colpa per averla lasciata a casa da sola mentre lui era là che si divertiva. Quando Luca gli mostrò il bullet con la special-key già carico per fare un tiro il ragazzo non capì. Ma a Luca sembrò che facesse solo finta e con estrema dolcezza lo trascinò in bagno con sé. Il ragazzo lo seguì docilmente, sereno e ignaro come un vitello al macello. Luca conosceva tutti lì dentro, buttafuori compresi. Non gli fu difficile raggiungere il bagno degli handicappati e farselo aprire dalla vecchia donna delle pulizie. Le fece scivolare nella tasca del grembiule azzurro un paio d’euro e lei gli fece l’occhiolino.
Una volta dentro, Luca si inumidì nuovamente le labbra e lo baciò a lungo, teneramente.
Il ragazzo fu conquistato dal suo atteggiamento deciso e dalle sue labbra carnose e umide. Decise di fidarsi e quando Luca fece un tiro di Key e ricaricò il bullet per lui, lo imitò senza fiatare. Il ritorno dal bagno al cubo al centro della pista fu molto più lungo, lento e faticoso dell’andata. Ma incredibilmente bello. Luca incedeva a ritmo di musica davanti a lui, tenendolo stretto per mano. Ogni tanto si voltava per vedere come stava, s’inumidiva le labbra e lo baciava. Il ragazzo lo seguiva fedelmente a passi lunghi, molleggiati e leggeri, come se camminasse sulla luna. Al loro passaggio gli sembrava che quella folla di corpi che si dimenavano come ossessi al ritmo della musica house d’improvviso si aprisse come le acque del Nilo davanti a Mosè. Quando alla fine di quel viaggio ritornarono lì dove si erano conosciuti, il ragazzo pensò che fosse passata un’eternità e capì perché Luca l’avesse chiamato “moon-walk”. Gli effetti dell’anestetico per cavalli che avevano sniffato durò per un bel po’ specialmente per il ragazzo che non l’aveva mai provato prima. Luca fu il suo angelo custode per tutta la notte. Esistevano soltanto loro due e potevano sentire i loro cuori battere all’unisono. Quando il ragazzo si svegliò nel letto di Luca con la mano intrecciata alla sua, gliene fu grato. E quando scoprì che Luca spacciandosi per lui aveva inviato dal suo cellulare un sms alla mamma per rassicurarla che stava bene ma che avrebbe dormito a casa di un amico quella notte perché avevano fatto tardi e non se la sentiva di guidare, il ragazzo non si infuriò. Non sapeva se Luca lo amava ma aveva un disperato bisogno che qualcuno si prendesse cura di lui. E si affidò a lui senza riserve.

mercoledì 25 agosto 2010

Sogno n°5

Maggio era il mese in cui si cambiavano le vetrine dei negozi con i sassi.
I ragazzini in strada raccoglievano i sanpietrini e li caricavano sulla carriola. Aspettavano la mattina presto, quando le luci dei lampioni erano ancora accese ma in strada non c’era ancora in giro nessuno, e cominciava la festa. Lanciavano i sassi contro i vetri e li spaccavano così, semplicemente. Poco male. I passanti li guardavano tranquilli e così pure i negozianti che tiravano su la claire, scopavano via le schegge di vetro e li sostituivano con delle lastre nuove.

A giugno c’erano tre case con le scale collegate tra loro al pianterreno e un aereo che decollava in discesa. In una casa era sempre inverno. Nella seconda il papà si nascondeva e il figlio gli rubava il portafogli. Nella terza tutto girava: le pareti ruotavano e mobili e oggetti roteavano in aria in tante spirali.

Luglio era la festa dei burloni. Avevano un paio di super occhi che permettevano loro di vedere le cose da vicino anche se erano lontanissime. Facevano festa tutto il giorno e tutta la notte. E vivevano sempre felici e contenti.

martedì 24 agosto 2010

Droppie (XI parte)

Dopo quella giornata stressante era seguita una notte completamente insonne.
Il ragazzo si era rigirato nel letto fino all’alba. Appena era riuscito a distinguere le sagome delle case s’era alzato, era andato in cucina e si era preparato un caffé bello forte che lo tenesse sveglio per il resto del giorno che avrebbe dovuto passare in biblioteca. Doveva consegnare la tesi entro la fine della settimana. Il relatore gli aveva dato l’ultimatum e non poteva permettersi ulteriori ritardi, pena lo slittamento della laurea alla sessione successiva, sei mesi dopo. Il ragazzo aveva acquistato a gennaio il biglietto aereo per New York e non avrebbe rinunciato per nulla al mondo al suo viaggio fly-and-drive nella terra della libertà. Voleva visitare il Village e lo Stonewall dove tutto era cominciato. Poi Miami, San Francisco e Los Angeles. Aveva già contattato degli amici via internet e aveva organizzato tutto. Avrebbe dormito da amici e amici di amici in ogni città e qualche giorno in ostello, nelle città dove non aveva appoggi o nelle tappe intermedie tra una destinazione e l’altra. In fondo era un viaggio all’avventura e come andava andava. Non era la prima volta che viaggiava da solo e sapeva perfettamente come cavarsela. Era certo che si sarebbe divertito e che quella sarebbe stata un’esperienza da raccontare ai suoi nipoti, si fa per dire.
Prese la vecchia moka della nonna, quella da sei tazze e ricordò come il caffè per Donna Caterina fosse un rito. Fece scorrere l’acqua del rubinetto e riempì la base della macchinetta mezzo dito sopra la valvola, come gli aveva insegnato lei. Poi ci mise il filtro, capovolse il tutto per eliminare l’acqua in eccesso e caricò il caffè. Fece una bella montagnella e la schiacciò per bene col cucchiaino. Alla fine ci fece due o tre buchi al centro con uno stecchino in modo che l’acqua potesse salire su agevolmente e avvitò bene la moka. Accese il fuoco al minimo, sollevò il coperchio della caffettiera e ci mise
sopra il cucchiaino a mo’ di paragocce.
Mentre aspettava che salisse il caffè, vide la penna. Era una di quelle a scatto trasparenti, con la donnina che si spoglia quando la metti a testa in giù per scrivere. Solo che al posto della donnina c’era un uomo in miniatura vestito da cowboy, con un grosso pisellone nascosto sotto la salopette jeans. “Billy” c’era scritto. Il ragazzo di aver ricevuto quel gadget per l’apertura di una discoteca gay di Roma. Si rigirò Billy tra le mani per un po’ e poi cominciò a scrivere sul retro del foglio dove aveva appuntato la lista della spesa.

“Era qui che mi aspettava, la tua penna. Un’altra cosa che mi farà ricordare di te per tutta la vita. Sapessi quanto mi pesa questa riconquistata vita da single. I party, i free pass, gli sguardi furtivi, i primi approcci, i preservativi e tutto il resto. Mi sembra un secolo da quando stavamo insieme. Ci penso mentre guardo le piante rinsecchite sul mio davanzale. Sembrano qui apposta per ricordarmi quanto sia precaria la vita. Tutto passa, tutto si trasforma. E noi che tentiamo inutilmente di dare ordine al caos.
Attraverso le inferriate del balcone vedo un gruppo di ragazzi che tornano a piedi da qualche discoteca e mi domando chi di noi sia prigioniero.
La vera prigione è la coppia che dopo mille notti passate avvinghiati l’uno all’altro stritola ogni passione, o questa gabbia di matti che in piena notte lascia il mondo dei sogni per rincorrerne altri nel buio dei locali?
Più passa il tempo più il ricordo di te si fa dolce come la polpa di un’arancia. Sotto la buccia indurita dalla rabbia e dal rancore cerco il buono di te che ancora c’è. I tuoi gesti gentili, le tue parole affettuose, i tuoi pensieri premurosi. Cerco di capire ancora cosa sia successo. Volevo sentirmi importante per qualcuno. Insostituibile. Imbattibile. Che stupido. Credevo di poterti aiutare a cambiare la tua vita e invece ho finito per cambiare la mia. Per sempre. Accarezzandoti di notte come i gatti mi nutrivo dei tuoi incubi, delle tue paure inconfessate, delle tue ossessioni. Fino a venirne inesorabilmente posseduto.
L’altro giorno un gatto nero mi ha attraversato la strada, fulmineo e silenzioso come il pensiero di te. Mi ha lanciato una breve occhiata attraverso la fessura verticale delle sue pupille. Aveva la stessa luce sinistra che ti vidi balenare negli occhi sotto le strobo in quella maledetta discoteca. Occhi belli e dannati.
Dannato me e la mia presunzione. Sì, sono presuntuoso, narciso, ambizioso, illuso. Sono triste e solo. Ma sono vivo. Sono qui che bacio un’alba nuova sul vetro appannato della mia cucina. Ci sono amori da vivere e amori da scrivere.”

lunedì 23 agosto 2010

Droppie (X parte)

Il giorno dopo si mise il computer sottobraccio e prese la metro per andare in biblioteca a finire la sua tesi. Non aveva scritto a Silvia né l’aveva più chiamata dopo che era tornata a Milano. Non era dell’umore giusto per parlare con nessuno. Era ancora sottosopra e non avrebbe saputo cosa dirle. E poi il tempo era fisso sul bello. Avrebbe aspettato che piovesse e che il bicchiere sul davanzale si riempisse, come aveva detto lei. Nel tunnel della metro faceva già molto caldo alle dieci di mattina. Era pieno zeppo di persone irritabili e accaldate. Le panchine erano tutte occupate. Il ragazzo poggiò la schiena contro il muro ricurvo della stazione Cavour e si mise a leggere i cartelloni della pubblicità per ingannare il tempo.

“People would read anything in the tube” era l’headline di una campagna inglese che aveva citato nella sua tesi come miglior esempio di utilizzo dei media. Era proprio vero. Guardò il tabellone: ancora sei minuti. La metropolitana di Roma faceva ridere in confronto a quella di Milano. Nel frattempo arrivò sferragliando il treno in direzione opposta e dopo poco ripartì. Tra la folla di persone gli sembrò di riconoscere un impermeabile color crema che gli era stranamente familiare. Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata. L’uomo con la ventiquattrore e la chierica somigliava… ma no, non poteva essere. Eppure sembrava proprio lui. Stesso impermeabile dal taglio ampio con le spalline abbottonate, stessa fodera a quadrettini della Barbour. E i capelli portati corti dietro e sui lati e con la piazzetta in mezzo? Se non fosse stato per la montatura degli occhiali alla moda avrebbe giurato che quello fosse suo padre. Ma una montatura si può anche cambiare, pensò. L’uomo dall’altra parte dei binari intanto si avviò tranquillamente verso l’uscita. Il suo treno stava per arrivare ma il ragazzo fu preso da un impulso irrefrenabile. Cominciò a correre su per le scale come un pazzo, scontrandosi contro la fiumana di gente che scendeva in senso opposto. Nulla poteva fermarlo. Neppure quella cicciona con le buste della spesa e il figlio in braccio che per poco non ammazzava. Neppure il rischio di rompere il computer nell’impatto e di perdere tutto il lavoro fatto per la tesi. Salì i gradini delle scale di marmo due a due, scavalcò i tornelli e riemerse nel mare di turisti in Via dei Fori Imperiali. Dell’uomo con l’impermeabile crema neanche l’ombra. Davanti a lui svettava in controluce la sagoma imponente e maestosa del Colosseo. Non era la prima volta che gli capitava quella sensazione di spaesamento. Un attacco di panico in piena regola. Aveva sognato tante volte che il padre fosse vivo. Temeva che avesse inscenato la sua morte per potersi risposare, avere altri figli, rifarsi una famiglia. Cambiare vita insomma. Se non avesse visto con i suoi occhi e toccato con le sue mani il corpo esanime del padre su quella fredda lastra di marmo dell’obitorio non avrebbe avuto dubbi. Gli mancava ancora così tanto? Se lo immaginò all’estero. Avrebbe dovuto cambiare nome e professione, ma con la sua conoscenza dell’inglese e del francese, la sua intelligenza e la sua incredibile abilità di autodidatta Tullio ce l’avrebbe fatta ovunque. Una volta gli aveva raccontato che, da giovane, per far colpo su una danese di cui si era innamorato, aveva imparò da solo la sua lingua e le promise che un giorno anche in quella terra lontana lei avrebbe sentito parlare di lui. E così fu. A 40 anni e senza appoggi politici o raccomandazioni di alcun genere Tullio era diventato il primario più giovane d’Italia e tenne congressi in tutto il mondo. Adesso che ci pensava, il padre aveva sempre prediletto i paesi del nord Europa. Sarebbe stata diversa la sua vita se suo padre fosse stato ancora lì con lui? Lo avrebbe aiutato con i soldi, l’università, la malattia e tutto il resto? E sua madre, come sarebbe stata? Lei che quando il marito era in vita si lamentava sempre che era un orso e non voleva mai uscire e vedere gente -a lui bastavano i suoi libri e la sua musica- e che dopo la sua morte aveva rimosso tutto: litigi, musi lunghi, incomprensioni, per ricordare solo quel poco di buono che restava. E’ così che funziona il cervello. Rimuove i ricordi brutti e conserva solo quelli che ti fanno stare bene. Gliel’aveva insegnato suo padre. Diceva sempre che il cervello non può impedirsi di pensare e che chi dice che non sta pensando a niente, mente spudoratamente. Perché è l’uso che fa l’organo. E l’unica funzione del cervello è quella di pensare. Addirittura una volta quando studiava biologia suo padre gli aveva detto che continua a esserci attività cerebrale anche qualche minuto dopo morti. E lui, cosa stava pensando in quel momento? Forse che a suo padre avrebbe fatto piacere vederlo laureato? Cazzo, la tesi! La sessione di laurea era fra meno di un mese e doveva ancora completarla e consegnarla al relatore.

mercoledì 28 luglio 2010

Droppie (IX parte)

Ma a chi voleva darla a bere pensò mentre spingeva la bicicletta a piedi sul lungotevere. Non si è mai single per scelta. Aveva innestato il pilota automatico e quasi senza accorgersene era arrivato davanti al negozio di biciclette nel ghetto ebraico. Entrò e chiese gentilmente al proprietario, o almeno così gli sembrava di ricordare, se poteva per favore dargli una gonfiatina. L’anziano signore che stava dietro al bancone neppure gli rispose e gli fece cenno con la mano di servirsi da solo usando la pompa ad aria compressa messa gratuitamente a disposizione dei clienti all’esterno del negozio. Ma il ragazzo insisté. Voleva approfittare dell’occasione per cambiare anche la sella che s’impregnava tutta d’acqua quando pioveva e già che c’era farsi dare anche una stretta ai freni. La sella costava 30 euro. Doveva lasciargli la bici e passare a ritirarla il giorno dopo, bofonchiò l’uomo sempre senza sollevare gli occhi dal suo registro dei conti. Trenta euro era più di quanto aveva pagato la bici -che era rubata sì, ma era pur sempre una Rossignoli e in perfette condizioni- disse il ragazzo e chiese di vedere le selle. 
L’ebreo neanche gli rispose. Il negozio era vuoto, lui era l’unico cliente e non riusciva proprio a capire il perché di tanta maleducazione. Nulla poteva giustificare un simile comportamento, specialmente da parte di quel vecchio commerciante ebreo che pure doveva aver sperimentato sulla propria pelle quella stessa mancanza di riguardo, quella stessa odiosa indifferenza che ora stava riservando a lui. A parte la differenza d’età le esistenze di quel ebreo disilluso e di quel giovane omosessuale confuso erano accomunate dal medesimo destino di discriminazione e sofferenza. Una condizione comune e un comune sentire, proprio come diceva la lettera di Silvia –si disse- e ancora una volta il pensiero tornò all’amica e ai tempi del liceo. Ma fu solo per un breve istante. Il ragazzo non ebbe neanche il tempo di riaversi dalla sorpresa che il proprietario l’aveva già scaraventato fuori dal negozio, inveendo contro di lui e la sua bici di merda.
Ritornando a casa a piedi in preda a una tremenda tensione -testa bassa e pugni serrati sul manubrio della bici- con un mare di rabbia pronta a esplodere in un pianto dirotto, il ragazzo si sentiva ancora più confuso di quando era uscito. Cosa gli stava succedendo? Era stato come vedersi dal di fuori, incazzato col mondo intero senza sapere perché e senza riuscire a controllarsi. Sul lungotevere che lo riportava a casa, spompato come le ruote della sua bici, cercò di analizzarsi meglio. La sua era una vita piena di avventure e ricca di emozioni. Si sentiva appagato e soddisfatto delle sue scelte, ma ancora così inspiegabilmente irrequieto. Perché? Tutta colpa delle sue aspettative sempre così eccessive, soverchianti, estreme? Della sua innata e dissennata tendenza a sognare ad occhi aperti che lo stimolava certo a migliorarsi ma lo alienava dalla realtà? La quotidianità d’altra parte lo aveva sempre atterrito. Per lui quello non era vivere, ma sopravvivere. Aveva ereditato dal padre una visione eroica dell’uomo e un culto per la vita vissuta intensamente alla ricerca della conoscenza di sé, degli altri e del mondo. Ma la vita per lui era sempre altrove. E il suo continuo affannarsi alla ricerca di qualcosa non gli permetteva di godersi ciò che aveva. La felicità è desiderare quello che si ha, gli diceva sempre sua nonna. Ma lui questa storia non se l’era mai bevuta. Gli suonava così falsa e difensiva. Una frase da mediocri e da perdenti, tipo “le dimensioni non contano” di chi ce l’ha piccolo. E non c’era niente che il ragazzo odiasse più della mediocrità e dei cazzi piccoli. Se la prese anche con l’oroscopo che prevedeva un anno fantastico per il Toro. Si era lasciato sopraffare dalle maliziose sirene astrologiche: chimere di carta stampata che mai paghe del presente lo spingevano a chiedere sempre di più al suo futuro. Sulla vecchia Smemoranda che conservava gelosamente dall’ultimo anno di liceo aveva letto una citazione che diceva che si può essere giovani una volta sola ma immaturi tutta la vita. Lui era alla soglia dei trent’anni ma non sapeva cosa la vita avesse in serbo per lui né quanto tempo gli restava. Gli suonò la sveglia sul cellulare. Era l’ora delle sue pillole.

giovedì 1 luglio 2010

Droppie (VIII parte)

Il giorno successivo il ragazzo si svegliò più contento e dopo un’abbondante colazione col panettone di Marchesi che Silvia gli aveva portato da Milano entrò nello studio, deciso a riprendere in mano la sua tesi. Ma quando aprì l’iBook trovò un foglietto scritto a pennarello. Non si sorprese affatto di trovarlo. Silvia non se ne andava mai senza lasciare un segno del suo passaggio. Era nel suo stile e a lui piaceva.

“SENTITI UN CARTONE ANIMATO,
COSÌ NON MUORI MAI,
NON CESSI DI ESISTERE,
FAI RIDERE I BAMBINI
E SOPRATTUTTO NON PROGETTI
PICCOLE E GRANDI STRONZATE
IN OGNI PICCOLO SPAZIO E SENZA ARIA,
DOVE I PICCOLI CALCOLI,
I DESIDERI DI PICCOLI PROFITTI TI BUTTANO.”

E’ di Lucio Dalla, ma lo penso anch’io.
Metti un bicchiere fuori alla finestra e aspetta. Quando sarà pieno di pioggia potremo brindare a noi due. Al nostro essere così diversi in tutto questo bordello che sta capitando nelle nostre vite, al nostro essere così simili nel comune modo di sentire e credere nella gente e nell’amore. Non siamo più ragazzini, non siamo ancora adulti. Cerchiamo almeno di non essere nulla, da soli.
Tua Silvia.

Il ragazzo piegò il foglietto in due, richiuse il computer e uscì. Era una splendida giornata. Faceva caldo e decise di fare una pedalata in centro ma la bici aveva una ruota a terra e la portineria dove per comodità lasciava la sua pompa a quell’ora era sprangata.
Il portiere gli aveva confessato che bastava spingere la vecchia porta di legno per aprirla, anche quando era chiusa a chiave. Il ragazzo non ci aveva mai provato ma quel giorno aveva bisogno di schiarirsi un po’ le idee e non c’era niente di meglio di una bella pedalata. Così si fece coraggio e si avvicinò alla portineria. Spinse piano il battente sinistro della porta, si assicurò che nessuno scendesse per le scale e con un colpo secco l‘aprì. Guardò subito a sinistra, dietro la sedia, ma la pompa non era al solito posto. Maledicendo la sua pigrizia e il disordine del portiere cercò all’interno del gabbiotto. Nell’armadio, sotto il tavolino, pure nel ripostiglio delle scope. Niente. Dovette uscire e richiudersi la porta alle spalle forzando il chiavistello con un altro colpo secco uguale e contrario al primo. E per fortuna anche quella volta nessuno scese per le scale. Uscì di nuovo alla luce di maggio e lanciò un’occhiata alla bici con la ruota a terra, cercando una soluzione alternativa. Non aveva intenzione di arrendersi. Era una giornata troppo bella per tornare in casa. A fare cosa poi? Guardare la tv? Leggere? Idem con patate.
Figuriamoci mettersi a studiare. Si sentiva troppo nervoso per quello. Le parole dell’amica l’avevano scombussolato. Stava davvero così male? Eppure gli aveva raccontato che Davide cresceva magnificamente, che man mano che i genitori si affezionavano al bambino diventavano più morbidi anche nei suoi confronti. Che la stavano aiutando a crescerlo e che i suoi sensi di colpa stavano lentamente sparendo insieme al ricordo di quel bastardo di Alberto. E lui? Come stava lui? Aveva sempre considerato Silvia la sua migliore amica e si sentiva particolarmente vicino a lei e partecipe della sua vita, eppure doveva ammettere che le loro esistenze avevano preso strade diverse da quando aveva cambiato città per vivere la sua omosessualità senza più rinunce e sensi di colpa. Gli sembravano così lontani i giorni passati insieme a Silvia sui banchi di scuola a Milano. Lei era diventata mamma adesso. Lui era gay e anche volendo non avrebbe mai potuto avere un figlio suo per via della malattia. E nemmeno adottarlo. Certo erano entrambi single ma per ragioni molto diverse. Eppure secondo lei erano così simili in quella scelta di solitudine. Nel dolore di quella solitudine.

lunedì 14 giugno 2010

Droppie (VII parte)


“Quella” detto dalla nonna in tono dispregiativo era sempre stato il nome della serva. “Quella” aveva rubato il cucchiaino d’argento della zuccheriera. “Quella” aveva sbeccato la zuppiera di porcellana. “Quella” arrivava sempre tardi con la spesa perché faceva la smorfiosa con il salumiere. Quando, esasperata dai modi burberi di Donna Caterina, “quella” minacciava di andarsene, la nonna si chiudeva in camera piagnucolando: “La perdo, la perdo”. E per imparare a comportarsi in modo più caritatevole con il prossimo, anche se di umili natali, si rileggeva la vita e le opere di S. Caterina. Ma poi “quella” non se ne andava mai e tutto ricominciava come prima. La verità era che quelle due donne si volevano bene e che non potevano stare l’una senza l’altra. “Quella” era l’unica a cui la nonna permettesse di pettinare i suoi capelli lunghi fino a terra e di acconciarli nel suo elegante cignon, assicurandoli con venticinque “pettinesse” d’osso. Solo a lei concedeva di assistere in cucina alla creazione delle sue ricette segrete. Le faceva sempre una regalia a Natale perché diceva: “I veri signori si vedono da come trattano i servi”. Le comprava ogni anno il biglietto del treno per andare al paese, da cui immancabilmente “Quella” tornava con una valigia piena di leccornie per tutti. Mai che il ragazzo avesse visto Donna Caterina accettarne una, però. Ringraziava e faceva segno di no con la testa. Solo all’uva moscata della sua terra non sapeva resistere e in tono lamentoso chiedeva alla serva a seconda dei casi: “Damm’ n’acino d’uva” oppure “Damm’ 'nu goccio d’ veleno”.
Era grata agli insegnamenti di Monsignor Della Casa e andava dicendo sempre che le vere signore non mangiano e non bevono, ma si nutrono come gli uccellini e che ci si deve sempre alzare da tavola con ancora un poco d’appetito. Vestiva sempre di nero e aveva mani nodose e dita affusolate, con un pezzo di spago legato intorno all’anulare per non farsi scivolare via la fede del marito. Il ragazzo ricordò di averlo notato una volta mentre lei sbucciava i piselli o i fagioli per il giorno dopo insieme alla cameriera. Ricordava le sue mani fredde gelate quella sera in cui la nonna gli massaggiò i piedi davanti alla tv, oppure fredde bagnate quella mattina in cui gli insegnò a farsi il nodo alla cravatta. Per non parlare di quella volta in cui, alzatosi di notte per andare a prendersi un bicchier d’acqua, vide alla luce tremolante di una candela la nonna seduta a un tavolino insieme ad altre donne della sua età con i palmi posati sopra il tavolino tondo a tre piedi della sala, le dita divaricate e i pollici e i mignoli che si toccavano per non interrompere la catena. A un tratto il treppiedi ebbe un sussulto e poi lentamente si sollevò da terra. Sua nonna crollò la testa all’indietro e con voce non più sua pronunciò il nome del defunto marito di una delle donne e si mise a rispondere alle sue domande, parlando in prima persona come se fosse lui. Il ragazzo se ne tornò subito in camera e non fece parola con nessuno di quello che aveva visto e sentito, ma rimase così impressionato dalla cosa che pregò di non essere presente in quella casa quando la nonna fosse morta.
La risposta arrivò un giorno di fine inverno. Il ragazzo era andato a Roma col fratello per stare un po’ con la nonna approfittando delle feste di Pasqua. Donna Caterina non stava per niente bene. La serva era stanca, vecchia e ammalata e a Natale era scesa al paese per non tornare mai più.
Anche se non l’avrebbe ammesso mai neppure a se stessa, dopo la morte della serva Donna Caterina era caduta in una profonda depressione e praticamente non mangiava più. Neppure un “acino d’uva”. Inutile dire che erano tutti molto preoccupati per lei, compreso il nipote che le era molto affezionato. Mentre tornava a casa per il pranzo, sperando che la nonna mangiasse almeno uno di quei maritozzi con la panna che le piacevano tanto, una vecchietta comparve dal nulla all’angolo del vicolo del Bologna bilanciandosi sulle gambe malferme con le borse della spesa.  Come se potesse leggere nei pensieri del ragazzo gli sorrise con la sua bocca sdentata e disse: “Ha superato l’inverno ‘a vecchiarella, eh?” e sparì senza lasciare traccia. Così, all’improvviso, come era venuta.
Il ragazzo rientrò a casa molto scosso e raccontò a Piero che naturalmente non credé a una sola parola di quello che per il fratello rappresentava un vero e proprio oracolo di morte, e neppure tanto sibillino. Donna Caterina se ne andò nel sonno a metà Aprile. Lo stesso mese della morte del marito, del matrimonio della figlia e del compleanno del ragazzo.

giovedì 10 giugno 2010

Droppie (VI parte)


Il ragazzo si tolse il giubbotto e andò subito ad aprire le finestre della sala, evitando accuratamente di guardarsi nello specchio all’ingresso. C’era ancora puzza di fumo della notte prima con Silvia e voleva fare entrare un po’ d’aria e di luce. Troppo tardi. I tulipani avevano capitolato, cospargendo di petali arancione il tavolino e il tappeto davanti al divano. Li prese e li gettò nel secchio dell’umido sotto il lavello della cucina. Silvia era ripartita. Il segno di rossetto su un mozzicone dentro al posacenere gliela fece ricordare insieme alle sue ultime parole.
“I letti sono fatti per due”. Oppure per uno, aggiunse mentalmente il ragazzo sorridendo tra sé, contento di essere tornato a casa propria e di dormire di nuovo nel suo letto a una piazza e mezza. Era un grande letto impero in radica di noce, eredità della nonna materna. Aveva svecchiato tutto il contesto certo: sostituito il damasco alle pareti con una carta da parati a righine multicolor alla Paul Smith, via le tende pesanti di velluto, via le fotografie di figli e nipoti morti in fasce o scomparsi in guerra -la prima e la seconda-. Aveva riesumato il vecchio parquet francese sotto la polverosa moquette blu scuro che la nonna ci aveva fatto incollare sopra in nome della modernità. Ma il letto era rimasto lo stesso. Gliel’aveva lasciato lei insieme a tutto il resto dell’arredamento nella sua modesta abitazione al primo piano di Vicolo del Bologna 14 nel cuore di Trastevere dove abitava molto prima che il quartiere popolare divenisse famoso e cadesse nelle mani di intellettuali inglesi e ricconi americani. Era una dimora piena di fascino e stracolma di suppellettili. Vecchie foto sbiadite dal tempo, mobili antichi rosicchiati dai tarli e la grande specchiera annerita dalle macchie di piombo che campeggiava sulla consolle all’ingresso, dentro la bella cornice di legno dorato con “la corona sovr’ lu stemma” come diceva la nonna quando voleva rivendicare i suoi nobili natali. Era accogliente quella casa e il ragazzo ci stava proprio bene.
Entrò nello studio e gettò un’occhiata all’iBook impolverato sopra lo scrittoio. Doveva decidersi a finire quella dannata tesi, ma ancora non se la sentiva di affrontare il fantasma di Pietro, Nicola e tutto il resto. Accese lo stereo ma lo spense subito. Per quanto tempo ancora la musica classica gli avrebbe ricordato quei due?
Una spolverata al computer però gliela fece e visto che c’era passò la vecchia t-shirt strappata che usava per la polvere anche sulle foto che gli sorridevano da sopra lo scrittoio. Il padre con la pipa in bocca sul balcone dell’hotel a Graz, la laurea del fratello e il ritratto in bianco e nero della nonna. Donna Caterina con la D maiuscola era una nobildonna di campagna, famosa tra le case di pietra con le tegole di coccio del suo paesino tra le montagne lucane per i suoi capricci di giovane e ricca ereditiera prima, per il suo travagliato matrimonio d’amore poi, e infine per le sue misteriose capacità extrasensoriali. Lei odiava la solitudine della grande metropoli e aveva scelto quel quartiere dai vicoli stretti e i comignoli anneriti sui tetti bassi delle case perché le ricordava il suo paese.
Tra le invenzioni del XX secolo –lei era nata nel 1899- amava la tv e detestava la lavastoviglie. Era una donna forte e per orgoglio aveva rinunciato a tutto. Quando aveva deciso di sposare il nonno di fede protestante -nonostante il veto del padre cattolico e dello zio Monsignore- fu diseredata e perse tutto, compreso l’anello con diamante che i fratelli le tolsero dal dito prima di cacciarla di casa. Aveva perso presto anche il conforto del marito. Nonno Cecco era andato a costruire ponti in Africa ed era tornato chiuso in una cassa, morto di malaria. Ma non perse mai l’orgoglio delle sue nobili origini e dello stile di vita a cui era abituata e a cui non si sarebbe mai rassegnata a rinunciare. Da quando il ragazzo ne aveva memoria, la nonna aveva sempre avuto la sua cameriera personale. Se l’era portata dal paese. Il ragazzo se la ricordava bene: bassina e sottile, capelli e occhi neri sempre fissi a terra, gentilissima e silenziosissima. I nomi non erano il suo forte ma per quanto si sforzasse di ricordare  era quasi sicuro di non aver mai sentito pronunciare il suo in quella casa.