lunedì 14 giugno 2010

Droppie (VII parte)


“Quella” detto dalla nonna in tono dispregiativo era sempre stato il nome della serva. “Quella” aveva rubato il cucchiaino d’argento della zuccheriera. “Quella” aveva sbeccato la zuppiera di porcellana. “Quella” arrivava sempre tardi con la spesa perché faceva la smorfiosa con il salumiere. Quando, esasperata dai modi burberi di Donna Caterina, “quella” minacciava di andarsene, la nonna si chiudeva in camera piagnucolando: “La perdo, la perdo”. E per imparare a comportarsi in modo più caritatevole con il prossimo, anche se di umili natali, si rileggeva la vita e le opere di S. Caterina. Ma poi “quella” non se ne andava mai e tutto ricominciava come prima. La verità era che quelle due donne si volevano bene e che non potevano stare l’una senza l’altra. “Quella” era l’unica a cui la nonna permettesse di pettinare i suoi capelli lunghi fino a terra e di acconciarli nel suo elegante cignon, assicurandoli con venticinque “pettinesse” d’osso. Solo a lei concedeva di assistere in cucina alla creazione delle sue ricette segrete. Le faceva sempre una regalia a Natale perché diceva: “I veri signori si vedono da come trattano i servi”. Le comprava ogni anno il biglietto del treno per andare al paese, da cui immancabilmente “Quella” tornava con una valigia piena di leccornie per tutti. Mai che il ragazzo avesse visto Donna Caterina accettarne una, però. Ringraziava e faceva segno di no con la testa. Solo all’uva moscata della sua terra non sapeva resistere e in tono lamentoso chiedeva alla serva a seconda dei casi: “Damm’ n’acino d’uva” oppure “Damm’ 'nu goccio d’ veleno”.
Era grata agli insegnamenti di Monsignor Della Casa e andava dicendo sempre che le vere signore non mangiano e non bevono, ma si nutrono come gli uccellini e che ci si deve sempre alzare da tavola con ancora un poco d’appetito. Vestiva sempre di nero e aveva mani nodose e dita affusolate, con un pezzo di spago legato intorno all’anulare per non farsi scivolare via la fede del marito. Il ragazzo ricordò di averlo notato una volta mentre lei sbucciava i piselli o i fagioli per il giorno dopo insieme alla cameriera. Ricordava le sue mani fredde gelate quella sera in cui la nonna gli massaggiò i piedi davanti alla tv, oppure fredde bagnate quella mattina in cui gli insegnò a farsi il nodo alla cravatta. Per non parlare di quella volta in cui, alzatosi di notte per andare a prendersi un bicchier d’acqua, vide alla luce tremolante di una candela la nonna seduta a un tavolino insieme ad altre donne della sua età con i palmi posati sopra il tavolino tondo a tre piedi della sala, le dita divaricate e i pollici e i mignoli che si toccavano per non interrompere la catena. A un tratto il treppiedi ebbe un sussulto e poi lentamente si sollevò da terra. Sua nonna crollò la testa all’indietro e con voce non più sua pronunciò il nome del defunto marito di una delle donne e si mise a rispondere alle sue domande, parlando in prima persona come se fosse lui. Il ragazzo se ne tornò subito in camera e non fece parola con nessuno di quello che aveva visto e sentito, ma rimase così impressionato dalla cosa che pregò di non essere presente in quella casa quando la nonna fosse morta.
La risposta arrivò un giorno di fine inverno. Il ragazzo era andato a Roma col fratello per stare un po’ con la nonna approfittando delle feste di Pasqua. Donna Caterina non stava per niente bene. La serva era stanca, vecchia e ammalata e a Natale era scesa al paese per non tornare mai più.
Anche se non l’avrebbe ammesso mai neppure a se stessa, dopo la morte della serva Donna Caterina era caduta in una profonda depressione e praticamente non mangiava più. Neppure un “acino d’uva”. Inutile dire che erano tutti molto preoccupati per lei, compreso il nipote che le era molto affezionato. Mentre tornava a casa per il pranzo, sperando che la nonna mangiasse almeno uno di quei maritozzi con la panna che le piacevano tanto, una vecchietta comparve dal nulla all’angolo del vicolo del Bologna bilanciandosi sulle gambe malferme con le borse della spesa.  Come se potesse leggere nei pensieri del ragazzo gli sorrise con la sua bocca sdentata e disse: “Ha superato l’inverno ‘a vecchiarella, eh?” e sparì senza lasciare traccia. Così, all’improvviso, come era venuta.
Il ragazzo rientrò a casa molto scosso e raccontò a Piero che naturalmente non credé a una sola parola di quello che per il fratello rappresentava un vero e proprio oracolo di morte, e neppure tanto sibillino. Donna Caterina se ne andò nel sonno a metà Aprile. Lo stesso mese della morte del marito, del matrimonio della figlia e del compleanno del ragazzo.

giovedì 10 giugno 2010

Droppie (VI parte)


Il ragazzo si tolse il giubbotto e andò subito ad aprire le finestre della sala, evitando accuratamente di guardarsi nello specchio all’ingresso. C’era ancora puzza di fumo della notte prima con Silvia e voleva fare entrare un po’ d’aria e di luce. Troppo tardi. I tulipani avevano capitolato, cospargendo di petali arancione il tavolino e il tappeto davanti al divano. Li prese e li gettò nel secchio dell’umido sotto il lavello della cucina. Silvia era ripartita. Il segno di rossetto su un mozzicone dentro al posacenere gliela fece ricordare insieme alle sue ultime parole.
“I letti sono fatti per due”. Oppure per uno, aggiunse mentalmente il ragazzo sorridendo tra sé, contento di essere tornato a casa propria e di dormire di nuovo nel suo letto a una piazza e mezza. Era un grande letto impero in radica di noce, eredità della nonna materna. Aveva svecchiato tutto il contesto certo: sostituito il damasco alle pareti con una carta da parati a righine multicolor alla Paul Smith, via le tende pesanti di velluto, via le fotografie di figli e nipoti morti in fasce o scomparsi in guerra -la prima e la seconda-. Aveva riesumato il vecchio parquet francese sotto la polverosa moquette blu scuro che la nonna ci aveva fatto incollare sopra in nome della modernità. Ma il letto era rimasto lo stesso. Gliel’aveva lasciato lei insieme a tutto il resto dell’arredamento nella sua modesta abitazione al primo piano di Vicolo del Bologna 14 nel cuore di Trastevere dove abitava molto prima che il quartiere popolare divenisse famoso e cadesse nelle mani di intellettuali inglesi e ricconi americani. Era una dimora piena di fascino e stracolma di suppellettili. Vecchie foto sbiadite dal tempo, mobili antichi rosicchiati dai tarli e la grande specchiera annerita dalle macchie di piombo che campeggiava sulla consolle all’ingresso, dentro la bella cornice di legno dorato con “la corona sovr’ lu stemma” come diceva la nonna quando voleva rivendicare i suoi nobili natali. Era accogliente quella casa e il ragazzo ci stava proprio bene.
Entrò nello studio e gettò un’occhiata all’iBook impolverato sopra lo scrittoio. Doveva decidersi a finire quella dannata tesi, ma ancora non se la sentiva di affrontare il fantasma di Pietro, Nicola e tutto il resto. Accese lo stereo ma lo spense subito. Per quanto tempo ancora la musica classica gli avrebbe ricordato quei due?
Una spolverata al computer però gliela fece e visto che c’era passò la vecchia t-shirt strappata che usava per la polvere anche sulle foto che gli sorridevano da sopra lo scrittoio. Il padre con la pipa in bocca sul balcone dell’hotel a Graz, la laurea del fratello e il ritratto in bianco e nero della nonna. Donna Caterina con la D maiuscola era una nobildonna di campagna, famosa tra le case di pietra con le tegole di coccio del suo paesino tra le montagne lucane per i suoi capricci di giovane e ricca ereditiera prima, per il suo travagliato matrimonio d’amore poi, e infine per le sue misteriose capacità extrasensoriali. Lei odiava la solitudine della grande metropoli e aveva scelto quel quartiere dai vicoli stretti e i comignoli anneriti sui tetti bassi delle case perché le ricordava il suo paese.
Tra le invenzioni del XX secolo –lei era nata nel 1899- amava la tv e detestava la lavastoviglie. Era una donna forte e per orgoglio aveva rinunciato a tutto. Quando aveva deciso di sposare il nonno di fede protestante -nonostante il veto del padre cattolico e dello zio Monsignore- fu diseredata e perse tutto, compreso l’anello con diamante che i fratelli le tolsero dal dito prima di cacciarla di casa. Aveva perso presto anche il conforto del marito. Nonno Cecco era andato a costruire ponti in Africa ed era tornato chiuso in una cassa, morto di malaria. Ma non perse mai l’orgoglio delle sue nobili origini e dello stile di vita a cui era abituata e a cui non si sarebbe mai rassegnata a rinunciare. Da quando il ragazzo ne aveva memoria, la nonna aveva sempre avuto la sua cameriera personale. Se l’era portata dal paese. Il ragazzo se la ricordava bene: bassina e sottile, capelli e occhi neri sempre fissi a terra, gentilissima e silenziosissima. I nomi non erano il suo forte ma per quanto si sforzasse di ricordare  era quasi sicuro di non aver mai sentito pronunciare il suo in quella casa.