martedì 16 novembre 2010

Andrew (IV parte)

In aereo faceva freddo. L’aria condizionata pompava al massimo, come al solito. Ma al ragazzo proprio non andava di svegliarsi, chiedere permesso alla cicciona stravaccata sul sedile di fianco al suo, aprire la cappelliera ed estrarre dallo zaino quella fottuta felpa col cappuccio che, non si sa com’è, riusciva a infilarsi sempre in fondo a tutto. Ma non gli andava neppure di resistere oltre a quella temperatura glaciale. Aveva la pelle d’oca. Si guardò i bicipiti muscolosi, gli avambracci un po’ troppo pelosi per i suoi gusti ma molto maschi, non c’era che dire, e i due braccialetti a molla che gli aveva regalato quel nero coi dreads nella piazza davanti a Notre Dame nel tentativo di scroccargli qualche monetina. E sorrise nel dormiveglia. Quei braccialetti in fondo gli piacevano, anche se non erano esattamente il suo genere. Anche se alcune perline nella sequenza dei rosso-giallo-nero-verde della bandiera jamaicana avevano perso colore e stavano diventando bianche come vecchie mentine ciucciate, gli piacevano. Gli piaceva anche la sua Fred Perry arancione con la coroncina bianca sul capezzolo sinistro che faceva pendant con i bermuda candidi al ginocchio. Gli piaceva anche come gli stava al polso il suo Tag Hauer, appena ricevuto come regalo di laurea: faceva così chic, anche se non aveva capito ancora come cazzo si pronunciava. Anche il suo nuovo look col pizzetto sale e pepe sul viso un po’ abbronzato gli piaceva. Insomma si piaceva un sacco con quella sua aria da bravo ragazzo, da uomo di mondo, da uno che ha viaggiato, che ha vissuto qua e là per un po’, ha conosciuto un po’ di gente e solo per quello crede già di sapere come gira il mondo. Si piaceva con quel fisico asciutto, l’aria elegante e quel suo modo di muoversi da gay adulto, risolto e come si dice sdoganato? Sì proprio così e già che c’era poteva sdoganare pure la puzzetta al naso da cittadino del Vecchio Continente, una volta sbarcato in America.
Per non parlare di quel ragazzo coi capelli rasati, il nasone, gli occhialoni a mascherina, gli auricolari dell’i-phone –bianchi pure quelli- ficcati nelle orecchie e il tatuaggio tribale –Maori, si dice così?- che gli tagliava a metà il polpaccio per il lungo e gli si avvolgeva a cerchio sul mallelolo –gli avrà fatto male?- pure quello gli piaceva un sacco. Ma era meglio non pensarci sennò gli veniva duro e doveva andare a farsi una pippa in bagno. E il bagno dell’aereo si sa non è poi così comodo. Eppoi faceva un freddo cane…
Si voltò in cerca di una hostess e vide quel businessman segaligno seduto dall’altra parte del corridoio col suo completo verde cacca, i lacci sporchi di cromatina mal tirata e quegli imperdibili, imperdonabili calzini azzurrini! Che orrore, pensò il ragazzo. Meglio concentrarsi sulla battuta da fare alla hostess sull’aria condizionata, l’era glaciale e via discorrendo. Chissà che effetto farà a quella bionda dai begli occhioni blu che continua a sculettare avanti e indietro per tutto il corridoio con quella sua aria da teutone sfigata che gli sta così sul cazzo. Lei come da copione sgambetta fino alla sua poltrona, spegne la lucetta intermittente di chiamata con un gesto rapido e meccanico che non riesce tuttavia a nascondere una certa dose di fastidio e si sforza di sorridergli. Ma ci riesce solo a metà: con la bocca. Gli occhi li tiene fissi sulla tua polo con la coroncina bianca, i tuoi bermuda bianchi, i tuoi denti bianchi e il tuo pizzetto bianco. Ma poi ti manda quel frocetto del capocabina, pensando che con i suoi modi da frocio consumato e la sua parlata affettata ti capisca meglio e tu la finisca di rompere i coglioni. Invece la cosa ti fa solo incazzare di più. Ma a te piace troppo mostrarsi educato ed elegante per fare una scenata. E poi guardalo come ti osserva. Ti si farebbe così su due piedi, anche nel bagno dell’aereo. Anzi forse lì si eccita di più e chissenefrega se si sta stretti, tanto in ginocchio ci finirebbe lui e alla fine non dovresti neppure tirare lo sciacquone. Che con quelle mani sottili e ben curate, seghe e pompini devono essere la sua specialità -altro che Irina Palm-. E il cazzo che ti stava già venendo duro, facendo capolino da sotto la tela bianca dei bermuda se ne va giù e scompare nelle mutande. Così finisce che gli dici che non fa niente, che adesso va meglio e ti riaccoccoli nella tua poltrona. Lui ti sorride coi suoi denti bianchi e dal taschino della camicia bianca tira fuori il suo biglietto da visita col suo cellulare scritto sul retro, “per qualsiasi cosa ti possa servire nella Grande Mela… Daniel Sanchez, ma tu chiamami Dan.”
Lo lasci andare, poi chiedi permesso alla cicciona, ti alzi e vai a chiuderti in bagno.
Tiri fuori la pallina di coca dalla tasca dei bermuda e col biglietto da visita di Dan ti stendi due righe bianche sull’asse del cesso e tiri, coperto dal rumore dello sciacquone, mentre il tuo aereo infila un banco di nembi nel cielo sopra New York.
“Grazie Dan, ma ho tutto quello che mi serve”.

mercoledì 10 novembre 2010

Andrew (III parte)

Finalmente eccolo lì il proprietario che chiacchierava tranquillamente del più e del meno con un attempato uomo gay, vagamente effeminato come tutti quelli della sua generazione.
Il ragazzo salutò, ma anche stavolta nessuno sembrò fargli caso. Strano, pensò. Non aveva notato telecamere di sorveglianza né lì né al piano di sopra. Chiunque avrebbe potuto arraffare qualsiasi cosa e andarsene via indisturbato, per quanto ne sapeva lui. Possibile che il proprietario fosse così sicuro dell’onestà dei suoi clienti da non preoccuparsi di chi entrava e di cosa faceva? Eppure neanche adesso gli stava prestando attenzione, nonostante il ragazzo fosse lì a rovistare in ogni angolo del negozio, toccando e spostando oggetti di ogni tipo: delicati, fragili, alcuni persino antichi e preziosi.
L’uomo gay -anzi l’omosessuale come si chiamano tutti quelli sulla cinquantina come lui- però lo aveva notato. Continuava a gettargli occhiate melliflue e a tratti, almeno così gli pareva, inequivocabilmente interessate. Non se lo stava immaginando. Non era uno dei suoi sogni ad occhi aperti, quello. Lui era lì in carne ed ossa, ne era certo. Ma per un uomo era trasparente, un essere inanimato come un qualunque oggetto in esposizione nel negozio: praticamente un uomo invisibile. Per l’altro invece era l’oggetto del desiderio. Era solo il testosterone a renderlo visibile? Solo il richiamo irresistibile del sesso lo faceva realmente esistere?
“Coito ergo sum” pensò il ragazzo e sorrise affettatamente, fissando il vecchio omosessuale nelle palle degli occhi, mentre s’infilava un grosso fermaporte di bronzo nella tasca del maxi-giubbotto blu e se ne andava, stavolta senza salutare nessuno. Aveva preso la prima cosa che gli era capitata a tiro, così per gioco, giusto per vedere cosa succedeva. Se era l’uomo invisibile, quello era il momento di provarlo. L’omosessuale rallentò impercettibilmente il ritmo della sua mielosa cantilena all’erre moscia con il suo amico antiquario, allungando giusto le pause tra tutti quei super, pà-de-qua e parole-varie-con-l’accento-sulla-a che infarcivano il discorso e faceva venire la pecolla al ragazzo, ma non disse nulla. Lo guardò e basta mentre rubava quel fermaporte, senza osare far nulla.
Che quello fosse uno sguardo complice, pietoso, riprovevole o accusatorio, lui non avrebbe saputo dirlo ma aveva imparato l’ennesima lezione sui gay e su se stesso. Stringendo forte la refurtiva in tasca mentre correva giù per le scale della metropolitana di Parigi e poi su per la scaletta dell’aereo che l’avrebbe portato a New York, il ragazzo poteva affermare con la sicumera tipica di tutti i giovani che si sentono invincibili –o forse invisibili- di aver provato un inconfessabile piacere a rubare qualcosa per la prima volta in vita sua. Ma soprattutto doveva confessare a se stesso di aver provato un segreto e immenso piacere nel vedere come quel vecchio frocio lo aveva lasciato fare. Nonostante fosse stato testimone oculare di un furto, quell’uomo schiavo del desiderio, succube del testosterone, vittima del sesso aveva preferito chiudere entrambi gli occhi piuttosto che accusare un suo simile, anche se era chiaro che il ragazzo non sarebbe mai stato una preda possibile per lui. Né possibile né tantomeno probabile: troppo giovane, troppo sexy, troppo bello per essere vero. Almeno per un vecchio omosessuale come lui.

martedì 9 novembre 2010

Andrew (II parte)



Dopo la tesi il ragazzo prese il suo volo per New York. Con stop-over a Parigi. C’era già stato da bambino con la famiglia e poi da adolescente in gita con la scuola ma non si sarebbe perduto per nulla al mondo la possibilità di rivedere la ville lumiere finalmente solo. Amava viaggiare da solo. Più che viaggiare per la verità amava perdersi. Girare a vuoto, senza meta, senza mappe, senza chiedere indicazioni a nessuno. Andava in giro per le strade muto, ma con le orecchie e gli occhi ben aperti: finestre spalancate sul mondo da cui lasciava entrare fiumi di voci e ondate di vita. La vita degli altri.
Ogni suono, ogni immagine portava con sé manciate di ricordi, come legnetti trascinati a riva dalla corrente. Lui osservava ogni cosa, ogni persona con un’attitudine così famelica, con un desiderio così palpitante di vita da risultare dolorosamente palpabile, tanto che a volte ne provava disagio lui stesso. Sentiva spesso quella indescrivibile sensazione come di vergogna, specialmente quando viaggiava nei paesi del nord Europa: dalla Francia, all’Olanda, alla Svezia. Si domandava se quel suo modo così bramoso di osservare o meglio di fagocitare la vita degli altri non fosse troppo eccessivo, scortese, sfacciato… se non potesse risultare addirittura sgradito agli occhi di quei popoli così riservati e tranquilli, così stranamente silenziosi in confronto agli italiani come lui. Ma invece nessuno pareva accorgersene. Gli sembrava incredibile, eppure la gente non faceva caso a lui e tanto meno al suo disagio e col tempo si convinse che era proprio quel suo modo di viaggiare da solo, col suo zainetto sulle spalle e i suoi segreti chiusi dentro, a renderlo invisibile.
Quella volta a Parigi volle fare un esperimento. Entrò in un negozio di chincaglierie all’estrema periferia della città: un robivecchi che una volta doveva essere stato pure un antiquario come dichiarava la pomposa insegna in legno dorato affissa sulla porta; ma ormai vendeva solo cornici orbe e oggetti di rame polverosi in mezzo a pile di pellicce tarlate e maleodoranti. Il fischio registrato di un uccello non meglio identificato lo sorprese all’ingresso e gli strappò un sorriso: il tono garrulo e la modulazione del suono che gli dette il benvenuto appena aprì la porta e fece scattare il meccanismo, gli ricordò il fischio di apprezzamento che i ragazzotti siciliani facevano all’arrivo di Monica Bellucci in Malena, il film che aveva visto in dvd proprio la sera prima di partire, per distendersi i nervi prima della tesi. Si guardò allo specchio nella cornice di legno ovale di fronte alla porta del negozio e sorrise tra sé osservando la differenza tra il suo corpo da ragazzone, reso goffo dal giubbotto blu oversize e dallo zainetto, e le forme sinuose della Bellucci in gonna stretta e tacchi alti che incedeva sculettando sul selciato sconnesso del lungomare di quel paesino siciliano del dopoguerra. Forse gli scappò anche una risata ma -di questo ne era certo- pronunciò un sonoro “Bonjour” per annunciarsi con garbo al proprietario del negozio che non vedeva, ma doveva ben essere lì da qualche parte. Eppure nessuno si accorse di lui. Dopo una decina di minuti buoni, spesi a passare in rassegna ogni oggetto del primo piano del negozio, il suo interesse gradatamente scemò fino a scomparire del tutto alla vista di quell’inquietante falco impagliato, appollaiato sulla ringhiera di ferro in cima alle scale. Così decise di scendere a dare un’occhiata al seminterrato, da dove proveniva un cicaleccio ovattato.

giovedì 4 novembre 2010

Andrew (I parte)

Arrivò il giorno della tesi. Il ragazzo aveva indossato l’abito in fresco di lana blu di Romeo Gigli. La camicia a sottili righe rosse sotto la giacca con il colletto sbottonato gli dava un’aria elegante ma informale, adatta a sottolineare, sdrammatizzandola, la solennità dell’occasione. Aveva voluto che la madre, il fratello e la sua migliore amica partecipassero alla discussione della tesi. Silvia aveva compreso la solennità che l’amico voleva dare a quella prima conclusione positiva della sua vita. In effetti il ragazzo aveva scelto un taglio originale alla sua tesi che oltre a una parte teorica consisteva nella creazione di una vera e propria campagna pubblicitaria per il lancio di una linea di giubbotti e tute da sci per bambini. Aveva voluto combinare l’arte alla moda sportiva, rappresentandola con i colori dei quadri di pittori moderni e con citazioni di scrittori contemporanei, quelli che lui più amava. Voleva affermare l’attualità dell’arte e l’artisticità che doveva avere la moda, anche quella sportiva per i più piccoli. Così nella campagna stampa le tinte di Kandinskij coloravano la tuta del piccolo sciatore inclinato nell’approccio al kristiana Nello spot tv la voce del suo amico attore citava gli slogan di Magritte. Il marchio fantasioso di “KROMICK” si stagliava deciso, irradiando nel sole centrale della “O” ovalizzata come la terra all’equatore, gli schizzi stilizzati dei colori di Kandinskij sulla neve candida. Il ragazzo presentava puntuale e con tono deciso la sua strategia creativa e le sue idee. I frutti della sua ricerca intellettuale e della sua formazione classica echeggiavano nella grafica elegante del marchio e nell’accurata scelta dei colori per i giubbotti e le tute da sci. Lo stile della campagna risultava estremamente raffinato, fin troppo alto per un pubblico di consumatori così giovani e disinformati sull’arte moderna, e forse anche per quella platea di esaminatori goffi e appiattiti nel tipico atteggiamento distratto e svogliato dei vecchi accademici. Silvia che aveva seguito passo passo la preparazione della tesi e condiviso tutto l’entusiasmo e la passione che ci aveva messo, giudicò sprecato l’amore per la cultura, la ricerca di conoscenza e la spiritualità dell’amico, di fronte alle facce assenti della commissione. Ma tutto quello per il ragazzo rappresentava una rivalsa sui passi incerti della sua nuova vita a Roma e sulla sua precedente esperienza da atleta. Voleva mostrare a tutti la sua maturità di laureando. 
Alla fine aveva suscitato il plauso un po’ invidioso e meravigliato di tutta la commissione, meritandosi la lode. Finalmente soddisfatto si mostrava raggiante ai suoi cari. Il fratello sempre contenuto nel manifestare i suoi sentimenti, gli riconobbe con affetto di averlo superato sul traguardo degli studi –lui era tre anni fuori corso in Ingegneria Elettronica -. La mamma nel suo vestito con i risvolti bianchi alla marinara, piccola di fianco a lui così alto, se lo teneva  abbracciato. Silvia si godeva la sua soddisfazione e quella della sua famiglia.