mercoledì 10 novembre 2010

Andrew (III parte)

Finalmente eccolo lì il proprietario che chiacchierava tranquillamente del più e del meno con un attempato uomo gay, vagamente effeminato come tutti quelli della sua generazione.
Il ragazzo salutò, ma anche stavolta nessuno sembrò fargli caso. Strano, pensò. Non aveva notato telecamere di sorveglianza né lì né al piano di sopra. Chiunque avrebbe potuto arraffare qualsiasi cosa e andarsene via indisturbato, per quanto ne sapeva lui. Possibile che il proprietario fosse così sicuro dell’onestà dei suoi clienti da non preoccuparsi di chi entrava e di cosa faceva? Eppure neanche adesso gli stava prestando attenzione, nonostante il ragazzo fosse lì a rovistare in ogni angolo del negozio, toccando e spostando oggetti di ogni tipo: delicati, fragili, alcuni persino antichi e preziosi.
L’uomo gay -anzi l’omosessuale come si chiamano tutti quelli sulla cinquantina come lui- però lo aveva notato. Continuava a gettargli occhiate melliflue e a tratti, almeno così gli pareva, inequivocabilmente interessate. Non se lo stava immaginando. Non era uno dei suoi sogni ad occhi aperti, quello. Lui era lì in carne ed ossa, ne era certo. Ma per un uomo era trasparente, un essere inanimato come un qualunque oggetto in esposizione nel negozio: praticamente un uomo invisibile. Per l’altro invece era l’oggetto del desiderio. Era solo il testosterone a renderlo visibile? Solo il richiamo irresistibile del sesso lo faceva realmente esistere?
“Coito ergo sum” pensò il ragazzo e sorrise affettatamente, fissando il vecchio omosessuale nelle palle degli occhi, mentre s’infilava un grosso fermaporte di bronzo nella tasca del maxi-giubbotto blu e se ne andava, stavolta senza salutare nessuno. Aveva preso la prima cosa che gli era capitata a tiro, così per gioco, giusto per vedere cosa succedeva. Se era l’uomo invisibile, quello era il momento di provarlo. L’omosessuale rallentò impercettibilmente il ritmo della sua mielosa cantilena all’erre moscia con il suo amico antiquario, allungando giusto le pause tra tutti quei super, pà-de-qua e parole-varie-con-l’accento-sulla-a che infarcivano il discorso e faceva venire la pecolla al ragazzo, ma non disse nulla. Lo guardò e basta mentre rubava quel fermaporte, senza osare far nulla.
Che quello fosse uno sguardo complice, pietoso, riprovevole o accusatorio, lui non avrebbe saputo dirlo ma aveva imparato l’ennesima lezione sui gay e su se stesso. Stringendo forte la refurtiva in tasca mentre correva giù per le scale della metropolitana di Parigi e poi su per la scaletta dell’aereo che l’avrebbe portato a New York, il ragazzo poteva affermare con la sicumera tipica di tutti i giovani che si sentono invincibili –o forse invisibili- di aver provato un inconfessabile piacere a rubare qualcosa per la prima volta in vita sua. Ma soprattutto doveva confessare a se stesso di aver provato un segreto e immenso piacere nel vedere come quel vecchio frocio lo aveva lasciato fare. Nonostante fosse stato testimone oculare di un furto, quell’uomo schiavo del desiderio, succube del testosterone, vittima del sesso aveva preferito chiudere entrambi gli occhi piuttosto che accusare un suo simile, anche se era chiaro che il ragazzo non sarebbe mai stato una preda possibile per lui. Né possibile né tantomeno probabile: troppo giovane, troppo sexy, troppo bello per essere vero. Almeno per un vecchio omosessuale come lui.

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