martedì 9 novembre 2010

Andrew (II parte)



Dopo la tesi il ragazzo prese il suo volo per New York. Con stop-over a Parigi. C’era già stato da bambino con la famiglia e poi da adolescente in gita con la scuola ma non si sarebbe perduto per nulla al mondo la possibilità di rivedere la ville lumiere finalmente solo. Amava viaggiare da solo. Più che viaggiare per la verità amava perdersi. Girare a vuoto, senza meta, senza mappe, senza chiedere indicazioni a nessuno. Andava in giro per le strade muto, ma con le orecchie e gli occhi ben aperti: finestre spalancate sul mondo da cui lasciava entrare fiumi di voci e ondate di vita. La vita degli altri.
Ogni suono, ogni immagine portava con sé manciate di ricordi, come legnetti trascinati a riva dalla corrente. Lui osservava ogni cosa, ogni persona con un’attitudine così famelica, con un desiderio così palpitante di vita da risultare dolorosamente palpabile, tanto che a volte ne provava disagio lui stesso. Sentiva spesso quella indescrivibile sensazione come di vergogna, specialmente quando viaggiava nei paesi del nord Europa: dalla Francia, all’Olanda, alla Svezia. Si domandava se quel suo modo così bramoso di osservare o meglio di fagocitare la vita degli altri non fosse troppo eccessivo, scortese, sfacciato… se non potesse risultare addirittura sgradito agli occhi di quei popoli così riservati e tranquilli, così stranamente silenziosi in confronto agli italiani come lui. Ma invece nessuno pareva accorgersene. Gli sembrava incredibile, eppure la gente non faceva caso a lui e tanto meno al suo disagio e col tempo si convinse che era proprio quel suo modo di viaggiare da solo, col suo zainetto sulle spalle e i suoi segreti chiusi dentro, a renderlo invisibile.
Quella volta a Parigi volle fare un esperimento. Entrò in un negozio di chincaglierie all’estrema periferia della città: un robivecchi che una volta doveva essere stato pure un antiquario come dichiarava la pomposa insegna in legno dorato affissa sulla porta; ma ormai vendeva solo cornici orbe e oggetti di rame polverosi in mezzo a pile di pellicce tarlate e maleodoranti. Il fischio registrato di un uccello non meglio identificato lo sorprese all’ingresso e gli strappò un sorriso: il tono garrulo e la modulazione del suono che gli dette il benvenuto appena aprì la porta e fece scattare il meccanismo, gli ricordò il fischio di apprezzamento che i ragazzotti siciliani facevano all’arrivo di Monica Bellucci in Malena, il film che aveva visto in dvd proprio la sera prima di partire, per distendersi i nervi prima della tesi. Si guardò allo specchio nella cornice di legno ovale di fronte alla porta del negozio e sorrise tra sé osservando la differenza tra il suo corpo da ragazzone, reso goffo dal giubbotto blu oversize e dallo zainetto, e le forme sinuose della Bellucci in gonna stretta e tacchi alti che incedeva sculettando sul selciato sconnesso del lungomare di quel paesino siciliano del dopoguerra. Forse gli scappò anche una risata ma -di questo ne era certo- pronunciò un sonoro “Bonjour” per annunciarsi con garbo al proprietario del negozio che non vedeva, ma doveva ben essere lì da qualche parte. Eppure nessuno si accorse di lui. Dopo una decina di minuti buoni, spesi a passare in rassegna ogni oggetto del primo piano del negozio, il suo interesse gradatamente scemò fino a scomparire del tutto alla vista di quell’inquietante falco impagliato, appollaiato sulla ringhiera di ferro in cima alle scale. Così decise di scendere a dare un’occhiata al seminterrato, da dove proveniva un cicaleccio ovattato.

Nessun commento:

Posta un commento