giovedì 10 giugno 2010

Droppie (VI parte)


Il ragazzo si tolse il giubbotto e andò subito ad aprire le finestre della sala, evitando accuratamente di guardarsi nello specchio all’ingresso. C’era ancora puzza di fumo della notte prima con Silvia e voleva fare entrare un po’ d’aria e di luce. Troppo tardi. I tulipani avevano capitolato, cospargendo di petali arancione il tavolino e il tappeto davanti al divano. Li prese e li gettò nel secchio dell’umido sotto il lavello della cucina. Silvia era ripartita. Il segno di rossetto su un mozzicone dentro al posacenere gliela fece ricordare insieme alle sue ultime parole.
“I letti sono fatti per due”. Oppure per uno, aggiunse mentalmente il ragazzo sorridendo tra sé, contento di essere tornato a casa propria e di dormire di nuovo nel suo letto a una piazza e mezza. Era un grande letto impero in radica di noce, eredità della nonna materna. Aveva svecchiato tutto il contesto certo: sostituito il damasco alle pareti con una carta da parati a righine multicolor alla Paul Smith, via le tende pesanti di velluto, via le fotografie di figli e nipoti morti in fasce o scomparsi in guerra -la prima e la seconda-. Aveva riesumato il vecchio parquet francese sotto la polverosa moquette blu scuro che la nonna ci aveva fatto incollare sopra in nome della modernità. Ma il letto era rimasto lo stesso. Gliel’aveva lasciato lei insieme a tutto il resto dell’arredamento nella sua modesta abitazione al primo piano di Vicolo del Bologna 14 nel cuore di Trastevere dove abitava molto prima che il quartiere popolare divenisse famoso e cadesse nelle mani di intellettuali inglesi e ricconi americani. Era una dimora piena di fascino e stracolma di suppellettili. Vecchie foto sbiadite dal tempo, mobili antichi rosicchiati dai tarli e la grande specchiera annerita dalle macchie di piombo che campeggiava sulla consolle all’ingresso, dentro la bella cornice di legno dorato con “la corona sovr’ lu stemma” come diceva la nonna quando voleva rivendicare i suoi nobili natali. Era accogliente quella casa e il ragazzo ci stava proprio bene.
Entrò nello studio e gettò un’occhiata all’iBook impolverato sopra lo scrittoio. Doveva decidersi a finire quella dannata tesi, ma ancora non se la sentiva di affrontare il fantasma di Pietro, Nicola e tutto il resto. Accese lo stereo ma lo spense subito. Per quanto tempo ancora la musica classica gli avrebbe ricordato quei due?
Una spolverata al computer però gliela fece e visto che c’era passò la vecchia t-shirt strappata che usava per la polvere anche sulle foto che gli sorridevano da sopra lo scrittoio. Il padre con la pipa in bocca sul balcone dell’hotel a Graz, la laurea del fratello e il ritratto in bianco e nero della nonna. Donna Caterina con la D maiuscola era una nobildonna di campagna, famosa tra le case di pietra con le tegole di coccio del suo paesino tra le montagne lucane per i suoi capricci di giovane e ricca ereditiera prima, per il suo travagliato matrimonio d’amore poi, e infine per le sue misteriose capacità extrasensoriali. Lei odiava la solitudine della grande metropoli e aveva scelto quel quartiere dai vicoli stretti e i comignoli anneriti sui tetti bassi delle case perché le ricordava il suo paese.
Tra le invenzioni del XX secolo –lei era nata nel 1899- amava la tv e detestava la lavastoviglie. Era una donna forte e per orgoglio aveva rinunciato a tutto. Quando aveva deciso di sposare il nonno di fede protestante -nonostante il veto del padre cattolico e dello zio Monsignore- fu diseredata e perse tutto, compreso l’anello con diamante che i fratelli le tolsero dal dito prima di cacciarla di casa. Aveva perso presto anche il conforto del marito. Nonno Cecco era andato a costruire ponti in Africa ed era tornato chiuso in una cassa, morto di malaria. Ma non perse mai l’orgoglio delle sue nobili origini e dello stile di vita a cui era abituata e a cui non si sarebbe mai rassegnata a rinunciare. Da quando il ragazzo ne aveva memoria, la nonna aveva sempre avuto la sua cameriera personale. Se l’era portata dal paese. Il ragazzo se la ricordava bene: bassina e sottile, capelli e occhi neri sempre fissi a terra, gentilissima e silenziosissima. I nomi non erano il suo forte ma per quanto si sforzasse di ricordare  era quasi sicuro di non aver mai sentito pronunciare il suo in quella casa.

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