martedì 24 agosto 2010

Droppie (XI parte)

Dopo quella giornata stressante era seguita una notte completamente insonne.
Il ragazzo si era rigirato nel letto fino all’alba. Appena era riuscito a distinguere le sagome delle case s’era alzato, era andato in cucina e si era preparato un caffé bello forte che lo tenesse sveglio per il resto del giorno che avrebbe dovuto passare in biblioteca. Doveva consegnare la tesi entro la fine della settimana. Il relatore gli aveva dato l’ultimatum e non poteva permettersi ulteriori ritardi, pena lo slittamento della laurea alla sessione successiva, sei mesi dopo. Il ragazzo aveva acquistato a gennaio il biglietto aereo per New York e non avrebbe rinunciato per nulla al mondo al suo viaggio fly-and-drive nella terra della libertà. Voleva visitare il Village e lo Stonewall dove tutto era cominciato. Poi Miami, San Francisco e Los Angeles. Aveva già contattato degli amici via internet e aveva organizzato tutto. Avrebbe dormito da amici e amici di amici in ogni città e qualche giorno in ostello, nelle città dove non aveva appoggi o nelle tappe intermedie tra una destinazione e l’altra. In fondo era un viaggio all’avventura e come andava andava. Non era la prima volta che viaggiava da solo e sapeva perfettamente come cavarsela. Era certo che si sarebbe divertito e che quella sarebbe stata un’esperienza da raccontare ai suoi nipoti, si fa per dire.
Prese la vecchia moka della nonna, quella da sei tazze e ricordò come il caffè per Donna Caterina fosse un rito. Fece scorrere l’acqua del rubinetto e riempì la base della macchinetta mezzo dito sopra la valvola, come gli aveva insegnato lei. Poi ci mise il filtro, capovolse il tutto per eliminare l’acqua in eccesso e caricò il caffè. Fece una bella montagnella e la schiacciò per bene col cucchiaino. Alla fine ci fece due o tre buchi al centro con uno stecchino in modo che l’acqua potesse salire su agevolmente e avvitò bene la moka. Accese il fuoco al minimo, sollevò il coperchio della caffettiera e ci mise
sopra il cucchiaino a mo’ di paragocce.
Mentre aspettava che salisse il caffè, vide la penna. Era una di quelle a scatto trasparenti, con la donnina che si spoglia quando la metti a testa in giù per scrivere. Solo che al posto della donnina c’era un uomo in miniatura vestito da cowboy, con un grosso pisellone nascosto sotto la salopette jeans. “Billy” c’era scritto. Il ragazzo di aver ricevuto quel gadget per l’apertura di una discoteca gay di Roma. Si rigirò Billy tra le mani per un po’ e poi cominciò a scrivere sul retro del foglio dove aveva appuntato la lista della spesa.

“Era qui che mi aspettava, la tua penna. Un’altra cosa che mi farà ricordare di te per tutta la vita. Sapessi quanto mi pesa questa riconquistata vita da single. I party, i free pass, gli sguardi furtivi, i primi approcci, i preservativi e tutto il resto. Mi sembra un secolo da quando stavamo insieme. Ci penso mentre guardo le piante rinsecchite sul mio davanzale. Sembrano qui apposta per ricordarmi quanto sia precaria la vita. Tutto passa, tutto si trasforma. E noi che tentiamo inutilmente di dare ordine al caos.
Attraverso le inferriate del balcone vedo un gruppo di ragazzi che tornano a piedi da qualche discoteca e mi domando chi di noi sia prigioniero.
La vera prigione è la coppia che dopo mille notti passate avvinghiati l’uno all’altro stritola ogni passione, o questa gabbia di matti che in piena notte lascia il mondo dei sogni per rincorrerne altri nel buio dei locali?
Più passa il tempo più il ricordo di te si fa dolce come la polpa di un’arancia. Sotto la buccia indurita dalla rabbia e dal rancore cerco il buono di te che ancora c’è. I tuoi gesti gentili, le tue parole affettuose, i tuoi pensieri premurosi. Cerco di capire ancora cosa sia successo. Volevo sentirmi importante per qualcuno. Insostituibile. Imbattibile. Che stupido. Credevo di poterti aiutare a cambiare la tua vita e invece ho finito per cambiare la mia. Per sempre. Accarezzandoti di notte come i gatti mi nutrivo dei tuoi incubi, delle tue paure inconfessate, delle tue ossessioni. Fino a venirne inesorabilmente posseduto.
L’altro giorno un gatto nero mi ha attraversato la strada, fulmineo e silenzioso come il pensiero di te. Mi ha lanciato una breve occhiata attraverso la fessura verticale delle sue pupille. Aveva la stessa luce sinistra che ti vidi balenare negli occhi sotto le strobo in quella maledetta discoteca. Occhi belli e dannati.
Dannato me e la mia presunzione. Sì, sono presuntuoso, narciso, ambizioso, illuso. Sono triste e solo. Ma sono vivo. Sono qui che bacio un’alba nuova sul vetro appannato della mia cucina. Ci sono amori da vivere e amori da scrivere.”

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