martedì 6 aprile 2010

Goldie (I parte)

Da quando il ragazzo si era trasferito a Roma per l’università, i rapporti con Silvia si erano molto diradati. Era andato a trovarla a Milano per la nascita di Davide e aveva provato per tutto il giorno il desiderio di avere un figlio pure lui, ma ora di sera l’aveva già rimosso e non ci aveva più pensato. Ora Silvia viveva di nuovo con i suoi nella vecchia cameretta che era rimasta tale e quale a come se la ricordava lui. Con un solo letto a una piazza e mezzo in cui erano costretti a dormire capo e piedi, come quando si fermava da lei ai tempi del liceo.
Silvia non gli aveva mai voluto rivelare chi era il padre di Davide.
“Non ne vale la pena”, aveva detto semplicemente. Aveva deciso comunque di portare avanti la gravidanza da sola, contro tutto e contro tutti, con quella incrollabile determinazione che contraddistingueva ogni sua azione. Il ragazzo le aveva detto sempre di guardare solo nella sua corsia -nella vita come nello sport- e ora non poteva certo essere lui a farle cambiare idea. D’altra parte ora era più bella che mai. L’aveva soprannominata “la mammità”. Quando la vedeva col bambino in braccio il ragazzo si inginocchiava a mani giunte e faceva finta di spargere petali di rose al suo cospetto, come ai piedi di una dea. Con la montata lattea il seno di Silvia, già generoso di suo, era diventato mostruosamente grande. Il ragazzo doveva ammettere che lo metteva un po’ a disagio, tanto che aveva sempre una scusa buona per sparire quando arrivava l’ora della poppata.
Sul treno di ritorno per Roma, dopo una settimana di carezze, ninne nanne, veglie e sonni agitati in cui disse definitivamente addio all’idea di avere un figlio, mentre cercava gli occhiali da lettura nella tasca del cappotto trovò la sua lettera.

“Vecchio Barbagianni,
ti sei addirittura dimenticato gli occhiali nel bagno ieri sera. Certe cose fanno un po’ tenerezza, specialmente se sembrano abitudini, di quelle che si prendono in casa e poi te le porti dietro per tutta la vita. Come stai? Abbiamo dormito nello stesso letto per una settimana intera, ma non me l’hai mai detto. E’ da un po’ che me  lo chiedo, visto che da quando vivi nella Capitale non ho più davanti la tua faccia tutto il santo giorno (il panorama è in netto miglioramento da questo punto di vista : ) però ci vediamo poco e parliamo ancora meno. Mentre aspettavo Davide ho avuto molto tempo per pensare e ho sentito la mancanza dei vecchi tempi (sì anche delle interrogazioni programmate di matematica e fisica!!). Me la fai passare quando fai il capriccioso, però quando sei come sei mi manchi molto. Forse dovremmo cominciare a scriverci come i comuni mortali.
No, non quegli stupidi messaggi via mail o sms, ma delle belle lettere come questa:
“in concreto” come dici tu e con un po’ di profumo spruzzato sopra. Così poi uno le prende e ci si struscia contro un po’. Sono molto spaventata da questa nuova condizione. Ho paura che le cose non vadano a dovere come dico io. Non mi fido molto della mia “mammità” e non me ne vergogno neanche tanto. Per il resto, la mia nuova situazione abitativa con mio padre si sta rivelando meno complicata del previsto, anzi riesco a discutere e a far valere le mie idee nel limite del possibile con un ex carabiniere e forse l’orco non è poi così cattivo come lo si dipinge. Il rapporto con mia madre procede con alti e bassi, solo che per via della mia sfavorevole congiuntura economica sono soggetta a rigidissimi controlli, per cui si contano anche i dieci centesimi che ho in tasca. Così non sono molto tranquilla. La mia vita affettiva resta una grande incognita. Ho sempre pensato di essere una brava bambina, una di quelle che “mai e poi mai”, che lei “certo no di sicuro” e invece eccomi qui con Davide. Quando lo guardo dormire -non sono tante le volte che riesco a farlo, come avrai notato- mi accorgo che il divario tra ciò che si vuole e ciò che si ha certe volte è così grande che ti fa una rabbia e ti fa venir voglia di saltare il fosso a piè pari. Così ho messo Umberto nel congelatore –ecco, adesso sai pure come si chiama il padre- l’altra sera. Eravamo andati tu e io soli a cena alla trattoria Toscana, ricordi? Ti ho detto che andavo in bagno e l’ho chiamato. Perché io non sono capace di far stare male qualcuno. Mi ricordo sempre come si sta male quando non sai perché l’altro ce l’ha su con te, perché non ti chiama, perché ti racconta solo storie. Perché cerca la lite, in poche parole. Io non credo di essere così misera. Così gli ho detto che nutro del risentimento nei suoi confronti, che non mi è andata giù come si è comportato con Davide, perché non l’ha riconosciuto, che stanno saltando fuori vecchie acredini, vecchie umiliazioni e vecchi rancori. Che tutto questo fa sì che io non voglia incontrarlo, non voglia uscire con lui, insomma non voglia più vederlo. Perché vedere la sua bella faccia sorridente, sentire la sua bella voce calma, conciliante e persino affettuosa mi fa incazzare. Mi sa di abitudine, di routine –e tu sai quanto odio la routine- di stanchezza mentale. Quando esco con lui mi lascio dietro una scia di bava appiccicosa e densa come le lumache. (Niente battute volgari e poche smorfie, che ti vedo) Quella bava si chiama rabbia.
Mi hai chiesto se mi sento fiera di crescere un figlio da sola. Magari non sono fiera, ma sono contenta così. Quello che ho imparato da Davide, alla faccia delle lezioni di morale di mamma e papà, è che il confine tra il bene e il male è così labile, così impalpabile da assumere il significato che gli dai tu. Mi sento molto derubata dall’idea dell’amore. L’amore era quella cosa che faceva le persone uguali ma diverse, simili ma opposte, unite ma separate. L’amore, quello che ci raccontavamo sull’erba al parco guardando le nuvole volare alte nel cielo come i nostri desideri, era quella straordinaria contraddizione che riempiva le pagine dei nostri diari. Te lo ricordi? L’amore era fatto di carne e sangue, e non di parole. Devo ancora trovarlo uno che la pensi così. Eppure so che esiste. Perché noi due siamo così. E finché ci saranno un uomo e una donna come noi, nel mondo ci sarà speranza. Per questo auguro ancora a tutti e due di trovare l’anima gemella. Ancora e sempre.

P.S. Volevo infilarti questa lettera nel portafogli ma ho trovato un preservativo con un nome e un numero di telefono. Per favore stai attento e abbi cura di te.
Tua Silvia.”

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