martedì 3 maggio 2011

Andrew (IX parte)


Dopo la settimana prenotata al Boatsleep hotel, innamorati di quel luogo Andrew e il ragazzo cancellarono il resto del tour e affittarono una deliziosa palafitta sulla spiaggia per il resto dell’estate.
Ogni mattina dopo aver fatto l’amore e una bella colazione a base di pancake e  sciroppo d’acero, si tuffavano nudi nelle gelide acque dell’Atlantico per raffreddare i bollori e finalmente sazi l’uno dell’altro si stendevano ad asciugare al sole.
Quel giorno il ragazzo si distese sulla spiaggia vicino a un gruppo di sassi neri cotti dal sole e inspirò profondamente il profumo del mare. Il nasello dei suoi Rayban si era slargato e le ciglia sbattevano contro le lenti scure. Fu allora che si accorse che piangeva senza apparente motivo. Tutto intorno era un paradiso. Pura bellezza: il mare dai riflessi dorati, il sole a picco, la pelle del suo compagno liscia e ambrata si tendeva a ogni respiro. Andrew riposava calmo e sereno, mentre lui pur consapevole della meraviglia che aveva intorno non riusciva ad essere felice. La sua mente vagava in preda a una irrequietezza febbrile, a dispetto dell’immobilità del proprio corpo nudo steso al sole.
Provò a dare la colpa delle lacrime alla crudeltà della natura per quel cormorano morto e semi-spolpato dai pesci o per quella distesa iridescente di meduse spiaggiate e arse vive dal solleone. Ma non gli riuscì di crederci neppure facendo appello alla sua estrema sensibilità. Si titillò la punta del cazzo per vedere di distrarsi un po’ si sistemò meglio sul pareo: c’era un maledetto sasso proprio lì sotto il coccige. Lo scovò con la mano e lo lanciò rabbioso contro il mare, il più lontano possibile. Ma neppure quel gesto liberatorio gli procurò sollievo. Allora guardò in alto. Le nuvole. Le sue amate nuvole si addensavano in alti cumuli, bianchi e vaporosi come stecchi di zucchero filato. Cominciò a osservarle cercando di distinguere qualcosa: un segno, un disegno. Qualunque cosa potesse distoglierlo da quel triste stato. Individuò subito due gruppi di nubi che procedevano in direzione opposta, spinte da chissà quali correnti, come due battaglioni l’un contro l’altro armati. Sulla sinistra un dragone sputava fuoco dalle fauci aperte. Poco più in là gli sembrò di scorgere un sagittario imbizzarrito, pronto a scoccare una lancia dal suo arco teso. Ma subito quel nuvolone mezzo uomo, mezzo cavallo si trasformò in un altro dio: uno Zeus accigliato e nasuto che spingeva le sue truppe alla battaglia. Si esercitò a prevedere il momento esatto dell’impatto. Una collisione sorda eppure incontenibile. E finalmente venne.

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