lunedì 7 febbraio 2011

Andrew (VII parte)


“Nice to meet you!” fece con enorme piacere dando la mano ad Andrew, dopo averla estratta ancora calda dall’incavo in mezzo alle sue cosce.
Andrew gli strinse la mano, lo trasse a sé e gli infilò la sinistra tra le chiappe, facendosi largo con grande abilità nei jeans attillati del ragazzo. L’effetto sul ragazzo fu immediato e inequivocabile. Andrew capì in un solo gesto le dimensioni e le sue preferenze sessuali, e fu sicuro che gli sarebbe piaciuto.
Si chiamava Andrew Lush. Lush come lussuria, pensò il ragazzo mentre si addormentava con la testa sul suo petto, dopo una notte di sesso travolgente. Furono svegliati dal suono incalzante delle sveglie dei rispettivi cellulari, sincronizzate entrambe sulle 8. Fu così che scoprirono -con un certo sollievo, come si sarebbero confessati in seguito- di essere entrambi sieropositivi. Forse fu quel piccolo incidente, forse fu il fascino fatale della grande mela che gli aveva finalmente offerto un incontro interessante: la verità è che il biglietto di ritorno per l’Italia non fu mai usato. Il ragazzo continuò il tour dell’America con il suo nuovo lussurioso amore. Nel viaggio in auto verso Boston scoprì che Andrew era un giovane avvocato ebreo di una decina d’anni più grande di lui che “aveva fatto il giro completo della giostra” come diceva lui, ma che ormai non usciva quasi più. Era stato solo un caso se quella sera l’aveva incontrato al Palladium. Era il compleanno di Ted, il suo migliore amico –gliel’aveva presentato in discoteca ma il ragazzo non se lo ricordava proprio- e dopo la cena a sorpresa che Andrew aveva organizzato con amici comuni a casa sua, tutto il gruppo l’aveva convinto a mettersi su qualcosa per andare a ballare. “Qualcosa che non comprendeva le mutande, eh?” commentò il ragazzo ingranando la quinta.
“Stiupido” rispose Andrew nell’italiano stentato che aveva imparato al college.
“Probablymente ero fuori, baby” continuò con un sorriso sornione “You know, my K is the best in town!”
Andrew aveva mantenuto solo quella cattiva abitudine della sua vita precedente. Lui lo chiamava “the circuit”: un vero e proprio circuito fatto di party esclusivi e locali di tendenza dove si davano appuntamento tutti i “muscle mary” come lui: giovani gay palestrati, sballati e spensierati. “Niente più christal, exstacy o speed” si difendeva lui, snocciolando i nomi delle più letali sostanze stupefacenti in circolazione con voce da santarellino. “Solo un po’ di K una volta ogni tanto. Solo nelle occasioni speciali. Per questo si chiama special, no?” sorrideva agitando la fiala di ketamina sotto il naso del ragazzo in attesa della sua approvazione. La sua K era davvero speciale. Mica la cuoceva nel microonde, lui. Troppo chip! La lasciava essiccare lentamente sul davanzale del balcone al sole di Manhattan. Il risultato era una droga più “naturale” –da buon americano mimava le virgolette con un rapido movimento dell’indice e del medio- ma dall’effetto davvero straordinario. Il ragazzo poteva confermarlo. A parte quello, da quando si era scoperto sieropositivo Andrew aveva completamente cambiato vita. S’era messo in pensione dopo quarant’anni di “I and law” come amava dire lui, giocando sull’ambiguità della pronuncia inglese che poteva riferirsi tanto alla sua carriera di avvocato, quanto agli “high and low” delle droghe.

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