martedì 23 marzo 2010

Olga (III parte)

Paura. Ecco cosa spinge un ragazzo di 17 anni a svegliarsi alle 7 ogni mattina, domenica compresa, correre in salita trascinandosi dietro un copertone piombato sotto il sole, la pioggia o il vento gelato. Ogni mattina scendeva di corsa i quattordici scalini in marmo bianco tra l’ascensore e il portone d’ingresso del palazzo e poi gli ultimi due gradini neri di pietra che davano sulla strada. Quattordici secondi e due centesimi: il record italiano allievi sui 110 ostacoli. Era un segno del destino. Ormai era diventato il suo chiodo fisso. Pensava solo a quello, giorno e notte. Qualcuno, qualcosa dentro di lui gli diceva di non mollare, che ce l’avrebbe fatta. Che era solo questione di tempo. Così il ragazzo cominciò ad allenarsi duramente, costantemente, caparbiamente. Sentendosi ogni giorno meno confuso, meno triste, meno sconfitto ma non più felice. Meno arrabbiato e meno solo ma mai felice. Solo quando si trovava a un metro e sei centimetri da terra, proteso sopra l’ostacolo come un missile, si sentiva così. Era solo un attimo. L’istante preciso in cui un piede è oltre l’ostacolo e l’altro si aggrappa ostinatamente al suolo alle sue spalle, come un artiglio. Allora per lui era come lasciare questa Terra per entrare in un’altra dimensione. Trascendeva le leggi fisiche come una saetta che attraversa il cielo d’improvviso, senza né tuono né fulmine, ma in modo naturale come per osmosi. Con un’azione fluida e progressiva: come un feto che si rigira nella placenta o come i cerchi che si formano nell’acqua. In quei momenti il ragazzo si dava completamente, incondizionatamente e arrivava al traguardo esausto. Morto e resuscitato. Allora si riconciliava davvero con se stesso. Per il resto, come diceva Silvia, qualsiasi cosa facesse, si sentiva solo un ragazzo a prestito.

Era un bel sabato d’inizio estate a Roma. Il ragazzo aveva lavorato sodo tutto l’anno. Era al massimo della forma e lo sapeva. Ma c’era il solito problema dell’emozione che lo tormentava. Per fortuna arrivò allo stadio dei Marmi così in ritardo che non ci fu neppure il tempo per pensare. A stento aveva un quarto d’ora per scaldarsi ma faceva caldo e i muscoli erano già bollenti sotto la calzamaglia blu e nera della Nike. 
Lo capì subito che quel giorno sarebbe successo qualcosa di straordinario. Il leggero vento a favore, i mulinelli d’aria calda che si sollevavano a ondate dalla pista bollente facendo tremolare i corpi nudi dei giganti di marmo come miraggi davanti ai suoi occhi, la consistenza magmatica del tartan, il silenzio carico d’attesa del pubblico sugli spalti, dell’allenatore e di tutti i suoi compagni di squadra. Tutto aveva un che di sovrannaturale. A causa del ritardo al ragazzo fu assegnata la prima corsia e non quella centrale che spetta di diritto a chi detiene il miglior record personale. Ma la cosa non lo disturbò più di tanto. L’allenatore non mancò di sporgere reclamo al giudice di gara, più per guadagnare tempo per il riscaldamento del ragazzo e per innervosire un po’ i suoi avversari che per altro. Lo sapeva benissimo anche lui che la prima corsia è la migliore per chi attacca gli ostacoli con la destra, perché puoi passare la seconda gamba leggermente più bassa e un po’ esterna alle barriere; quel tanto che basta a guadagnare preziosi centesimi di secondo. Mentre lo starter elencava i nomi dei concorrenti e i rispettivi record personali il ragazzo sistemò i blocchi, strinse forte i lacci delle scarpe chiodate e si sedette, aspettando che l’ansia se ne andasse. Tirò fuori dallo zainetto di tela lo specchietto rotondo e si guardò. Vide la paura nascosta in fondo agli occhi, i suoi begli occhi scuri, sotto l’arco gentile delle sopracciglia. Riconobbe i segni della tensione trattenuta nella linea sottile delle labbra che gli tagliava la bocca in due di netto. Seguì le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte ampia e gli gocciolavano di lato sulle tempie dove il sangue pulsava all’impazzata. E cominciò a respirare profondamente. Fece uno, due, tre respiri. Ampi e profondi, ampi e profondi, ampi e profondi. Finché la paura di quel ragazzo che fuggiva rincorso dai compagni di scuola che gridavano femminella, la sensazione d’inadeguatezza che lo prendeva allo stomaco, l’ombra lunga della solitudine che lo tallonava sempre da vicino pian piano scomparve, superata da una sensazione nuova, profonda e incrollabile. La consapevolezza di potercela fare. Quando lo starter esplose il colpo di pistola a salve non sentì più gli insulti, la vergogna, la differenza. Sentì solo il battito del suo cuore. E volò via verso il traguardo in una corsa elegante, leggera e lieve. Una corsa che non conosceva ostacoli.
“Quattoridici e due! Quattoridici e due!” urlò l’allenatore. Ma il ragazzo non lo ascoltava. Sentiva solo che finalmente era finita.

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