lunedì 15 marzo 2010

Silvia (IV parte)

“Ciao ragazzone,
non sai quante volte avrei voluto farlo, ma solo oggi ho trovato la concentrazione giusta per scriverti, per parlarti…
Un paio di volte ho provato timidamente a cercarti, non ti ho trovato, non ho insistito.
Spero che finalmente abbia sistemato le tue cose, che i tuoi desideri si siano realizzati, e soprattutto mi auguro che non ti senti mai solo. Ma senz’altro la tua allegria, la tua capacità di stare insieme agli altri ti aiutano.
Parlare con te inevitabilmente mi porta a pensare all’atletica, alla nostra atletica che sono sicuro è ancora dentro di te così genuina e sincera come in me. Come quegli amori eterni, rari, ai quali ognuno di noi dedica un angolo del cuore e che ci fanno sentire un po’ diversi, speciali, orgogliosi e che ancora dopo dieci anni non riesco a riprovare.
A proposito, sono felice di dirti che ormai sono tecnico nazionale specialista del settore velocità e ostacoli, ma soprattutto mi piace raccontare appena posso le tue imprese, il tuo innato talento e la tua inimitabile eleganza nel superare le barriere. I tuoi record ancora imbattuti sono il mio maggior vanto e sono certo che se tu volessi potresti ancora oggi dire la tua. Vorrei stare un po’ con te per ascoltarti, per rivivere insieme questi anni passati troppo in fretta…
Tu nel frattempo fatti vivo e se vieni al campo non fare il fesso che non ti fai vedere.
Io da un giorno all’altro spero di vederti arrivare con la tua andatura ciondolante, lo zainetto sulle spalle e il sacchetto con le scarpe chiodate in mano.
Luciano” 
Il ragazzo si rigirò la lettera del vecchio allenatore tra le mani e con la matita per gli occhi di Silvia si mise a scrivere sul retro di quello stesso foglio. Con una foga irrefrenabile.

“Pronti… Via. Spingo i talloni sui blocchi di partenza e mi convinco: sono bassi, sono ancora come prima. Mentivo a me stesso come mi avevi detto di fare tu, sempre lì dietro di me a farmi coraggio, per cancellare la paura di quel metro e zero sette centimetri di altezza. E tante altre ancora. Come gli ostacoli anch’io sono diventavo grande. Lontano dalla rassicurante cerchia dei compagni di scuola, via dalla mamma chioccia in cerca di me stesso. Quanti ne ho cercati di uomini rassicuranti tra i volti dei mille ragazzi che ho incontrato. Sono rimasto me stesso: quel ragazzo avventuroso e misterioso che si incanta con la testa fra le nuvole e un papavero rosso in mano, appassito prima ancora di trovare risposta a una domanda così semplice. Eppure così difficile. Ma non mi fermo. C’è sempre un altro ostacolo da superare. Tra noi ce n’è uno bello alto. Ricordi quel giorno quando ci siamo salutati? Eri triste. Ero triste. Mi mancavano le nostre telefonate prima e dopo ogni allenamento, come se fossi tu il mio fidanzato. Ma tu eri e resti il mio allenatore. L’unico. Dopo di te l’atletica ha perso ogni valore. Lo ammetto, sono stato geloso degli altri ragazzi che allenavi, anche se so che neppure per te era più lo stesso. E poi, un giorno, la tua lettera. Una pagina d’inchiostro per riempire un anno di silenzi. Tu sposato, io gay. Entrambi, spero, felici nella nostra diversità di ritrovarci a parlare, un giorno. Senza più ostacoli.”

Silvia lo guardava fisso. Il ragazzo era tutto sudato, con il mozzicone della sua matita per gli occhi stretta in mano come un’arma. Avrebbe mai avuto il coraggio di spedire quella lettera al suo vecchio allenatore? Dopo tanto tempo? Forse lui già lo sapeva? Cominciò a montargli dentro un incontrollabile senso di nausea che ben presto si trasformò in un’orrenda sensazione di soffocamento. Gli mancava l’aria, gli ronzava la testa e stava per svenire quando, nel turbinio dei suoi pensieri e nell’addensarsi sempre più cupo delle sue più recondite paure sentì materializzarsi una voce interiore. Era un suono indistinto e monocorde, senz’alcuna inflessione dialettale, senza spessore, timbro o colore. Una voce senza volto e senza nome che proveniva da qualche profondità inesplorata del suo io, da un buco nero della sua coscienza.
“Morirai a 19 anni” gli disse quella voce e se ne andò lasciandolo lì da solo, all’improvviso, così com’era venuta.
“Un altro dei tuoi sogni a occhi aperti?” chiese Silvia. Poi aprì la borsa, tirò fuori il pacchetto di sigarette e l’accendino arancione e fece per accendersene una, ma poi stranamente la ripose. Fu allora che il ragazzo le chiese, anzi no, non le chiese ma con una certa sicurezza le disse: “Silvia… tu sei incinta.”

Silvia non sapeva cosa dire. Semplicemente esistono persone che non sono programmate per dire le bugie. E lei era una di quelle. Così, con la stessa semplicità con cui le aveva parlato il ragazzo, rispose sì. E si accese quella sigaretta.
“Danne una pure a me” fece il ragazzo avvicinandosi all’amica. Poi l’abbracciò con un tale slancio che si rotolarono tutti e due per terra, ridendo come disperati. Perché quando si è giovani si è disperatamente felici o disperatamente infelici, ma comunque disperati.
Si era fatto tardi. Cominciavano ad accendersi le luci dei lampioni del parco, violacee come la tinta fatta in casa di sua nonna che la faceva assomigliare alla fata turchina. Erano le cinque e dovevano ancora andare a casa a fare i compiti.
“E togliti di mezzo, coglione!” Il ragazzo non s’era accorto che era scattato il verde e un automobilista stressato gli stava smadonnando contro. Dopo avergli bestemmiato dietro mentalmente, il ragazzo saltò sul marciapiede opposto e si sedette a rifiatare sul cofano di un’auto parcheggiata, trovandolo piacevolmente caldo sotto il culo.
Ma dov’era finito quello svitato del suo amico? pensò Silvia e si mise una cicca in bocca cominciando a masticare furiosamente al ritmo dei suoi stessi passi. Odiava perdere tempo lei e soprattutto detestava perderlo per aspettare gli altri.
Il ragazzo la osservò allontanarsi senza trovare neppure la forza di urlare il suo nome mentre, rapida e sinuosa come una pantera, Silvia si faceva largo tra la folla che attraversava in direzione opposta le strisce pedonali della strada che divideva il parco delle Basiliche in due, sferzando con violente e involontarie cinghiate della sua giacca di pelle chiunque le si accostasse troppo.

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