giovedì 4 marzo 2010

Silvia (II parte)

“Uomini senz’ombra”. Li chiamava così i milanesi, il suo amico Levent nel suo mezzo-italiano-mezzo-turco. L’aveva conosciuto ad una festa anzi, pardon, a un party così esclusivo che non c’era praticamente nessuno a parte loro due, il padrone di casa e qualche sua amica. Ma fu comunque un incontro interessante, nato per un caso fortuito, o per meglio dire un incidente. Dopo aver fatto il suo ingresso nel lussuoso appartamento con terrazzo piantumato del padrone di casa -un tipo molto trendy che vendeva mazze da golf e collezionava boule-de-neige- il ragazzo si mise in un angolo in attesa che il party, come dire, decollasse. Fu dopo aver trascorso una buona mezz’ora lì da solo con le spalle contro il muro, come se dovesse reggerlo lui, che s’imbattè in Levent. Per la verità fu più per prendere una boccata d’aria che per un reale interesse che il ragazzo si decise ad avvicinarsi alla stravagante collezione di palle di neve in vetro provenienti da ogni parte del mondo che facevano bella mostra di sé sugli scaffali in mogano della libreria vicino alla porta finestra che dava sul terrazzo. E fu proprio lì che incrociò lo sguardo penetrante del turco che, manco a dirlo, non aveva mai smesso di fumare. Parlare con Levent era uno spasso.  Nella variegata fauna di uomini-senz’ombra della sua personalissima Milano da bere avevano diritto di cittadinanza diversi gruppi di persone, ognuno col suo particolare modo di dire e di fare; ognuno col suo nespà immortalato in un’immagine e una didascalia: come una polaroid. I social-sucker erano quelli che arrivavano per primi alle feste e se ne andavano per ultimi ma rimanevano sempre un po’ in disparte, osservando tutto e tutti con aria indifferente senza mai fare un commento, dare un contributo o un tocco personale alla festa, ma succhiando letteralmente l’energia da tutti gli ospiti.
I pilow-kisser li riconoscevi subito da come ti salutavano mimando due bacetti delicati su ambo le guance, proprio come se stessero posando il viso sul cuscino, per poi passare a salutare qualcun altro, volando via di fiore in fiore, attratti dal profumo più intenso delle creme idratanti delle sciure: il profumo del lusso, come lo chiamava lui.
Le lady uffa-uffa -termine indistintamente usato per le donne vere e per le donne inside, cioè quelle imprigionate dentro il corpo di un uomo- si lamentavano sempre di tutto e di tutti, anche se in genere erano quelle che meno avevano da rimproverare alla vita o alla sorte. Erano le più ricche e immancabilmente anche le più stufe. “Just been there, just done that, spare me, spare me…” le imitava Levent intonando con vocina stridula il loro modo di parlare in perfetto queen english. D’altra parte le poverine avevano ben poco da divertirsi in quelle feste dove gli uomini erano al 90% gay. Levent non perdeva occasione per raccontare di quella sera in cui una di loro, mezza nuda e completamente ubriaca, si aggirava per le stanze semivuote di un appartamento a Mykonos urlando senza più neanche un briciolo di dignità “Any bisexual in the house?”
Le frociarole, come si può facilmente intuire, erano le amiche dei maschi gay. Quelle troppo brutte, troppo matte o troppo vecchie per avere un compagno vero, che preferivano la compagnia di amici gay, convinte in cuor loro di riuscire un giorno o l’altro a redimerne qualcuno. Povere illuse. E poi c’erano i barboni: i paria, gli invisibili della città. Quelli senza arte né parte, senza quelli senza né vestiti griffati né accessori firmati, quindi praticamente senza nome. Quelli che Levent era costretto a citare per esigenze diciamo così socio-antropologiche; giusto per completare la lunga e dettagliata analisi della variegata fauna milanese vista attraverso i suoi occhi di immigrato di lusso. Esclusi dai party quelli li ritrovavi in ogni angolo della città.

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