mercoledì 3 marzo 2010

Silvia (I parte)

“Non riesco a respirare. Sento tutto lo smog che mi entra dentro il naso” disse il ragazzo all’amica bionda seduta a gambe incrociate di fronte a lui. Lei sollevò giusto un sopracciglio senza staccare gli occhi dal suo libro. Un sopracciglio solo. Faceva così quando c’era qualcosa che non capiva o non le andava a genio, o quando non aveva voglia di parlare e basta. Faceva quella faccia a punto interrogativo. Un panino al parco, aveva detto il ragazzo e lei aveva accettato, increspando un po’ le labbra in quel suo sorriso stretto. Nessuno ci faceva caso, ma a Silvia mancavano gli incisivi nell’arcata dentale superiore. Non le erano mai cresciuti e dopo anni di apparecchi fissi e mobili, anche adesso che ormai era tutto a posto, le era rimasto quel complesso. Neanche avesse un brutto sorriso, poi. Anzi quando rideva, e lo faceva spesso, le s’illuminava il viso di un bagliore verde-azzurro. Aveva due occhioni azzurri come laghi e nonostante li cerchiasse sempre con uno strato di matita nera troppo intenso e li nascondesse dietro un paio di occhialoni a mascherina verde scuro, le ridevano gli occhi a Silvia.
Era l’ultimo giorno di marzo e ti veniva voglia di abbinare il tuo umore al colore della primavera. Hai presente il verde speranza delle foglioline appena nate? il verde pisello dei teneri fili d’erba fresca? il verde oliva delle siepi di pitosforo? Ma poco più in là, oltre gli spartitraffico, il verde scuro delle parietarie e il verde marcio degli escrementi nei recinti di legno per i cani ti facevano parcheggiare subito quella voglia nelle strisce gialle riservate ai residenti.
La coppia di amici s’immerse in apnea tra le macchine che sbuffavano tra la scuola e il parco. Peccato sprecare una così bella giornata, pensò il ragazzo. Era l’una del mattino, c’era il sole o almeno doveva pur esserci il sole da qualche parte, oltre la lastra di nuvole di quel cielo al neon.
Strano, pensò, sentendo la ghiaietta del viale scricchiolare sotto la gomma delle sue scarpe da ginnastica con un suono ovattato. Quasi che i suoi occhi e le sue orecchie, di fronte all’orgia di stimoli visivi e olfattivi della natura al suo risveglio, ricercassero il letargo dell’inverno, anelassero al totale isolamento, si imponessero una deprivazione sensoriale volontaria. Come un pazzo masochista che dopo essere stato troppo a lungo rinchiuso in una stanza dalle pareti imbottite, di fronte al caos del mondo esterno preferisse tornare a rinchiudersi per sempre nella sua cella.
Perso nel loop di quei suoi pensieri il ragazzo continuava a camminare guardando le sue scarpe logore lievitare leggere sull’asfalto come il vampiro nel film del conte Dracula.

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