venerdì 5 marzo 2010

silvia (III parte)

Rannicchiati sotto gli scatoloni alla stazione o nascosti agli angoli delle strade puzzolenti di urina. Quelli erano i veri uomini senz’ombra. Anzi gli uomini ombra. Potevano pure fare a meno di nascondersi, tanto nessuno si sarebbe mai accorto della loro presenza pensò il ragazzo e, quasi senza accorgersene, cominciò a tastarsi dappertutto. Portafogli, cellulare, chiavi. Era tutto al suo posto, eppure pareva che gli mancasse qualcosa: la sua ombra. Era l’una del pomeriggio ma il suo corpo non proiettava alcuna ombra. Fu assalito da un’assurda sensazione di assenza del corpo, di perdita d’identità che gli dette le vertigini. Se non c’era la sua ombra lui non esisteva, constatò, sorridendo al ricordo della favola di Peter Pan che in effetti non gli era mai piaciuta, neppure da bambino. Si voltò attorno per assicurarsi d’essere ancora lì nel mondo reale e non in uno dei suoi sogni. Ma il fatto che nessuno intorno a lui proiettasse l’ombra a terra non lo rassicurò di certo. Su una panchina al limitare del parco vide un uomo, gli occhi fissi nel vuoto, opachi e spenti, il corpo ridotto a un lumicino, la pelle sottile come carta velina che potevi vedergli l’anima in trasparenza. Chissà quante persone come quello lì c’erano in città. Uomini tutt’ossa, senza più l’ombra di un’emozione, senza più un briciolo di energia. Ossi di seppia alla deriva. D’improvviso l’uomo gli puntò gli occhi addosso. 

“Cazzo guardi, stronzo?” abbaiò il ragazzo. Ma lo sguardo dell’uomo lo trapassò come se fosse un fantasma. “Stronzo di merda galleggiante pussa via in quest’istante” continuò a rimare mentalmente il ragazzo mentre si allontanava, calciando un sassolino di ghiaia che andò a finire al centro del laghetto con un plof e si allargò in cento cerchi concentrici.
Se la ricordava bene quella panchina. L’aveva vista tante volte in sogno. Ma invece che in un parco stava in mezzo a una strada lunga e dritta per poter prendere bene la rincorsa. Lui faceva una decina di passi e swoosh spiccava il volo, stando bene attento a non restare impigliato nei rami degli alberi più alti o nelle antenne della tv sui tetti dei palazzi. La città si spandeva subito sotto di lui, piatta e vischiosa come un barattolo di pece rovesciato in terra. Al centro si aggrumava il nero delle case che sbavava ai bordi in un grigio scuro, assecondando gli avvallamenti del terreno. Poi anche il grigio scompariva, avvolto nella nebbia o inghiottito da un enorme buco nero. E il sole se ne stava lì a guardare dietro una spessa lastra di nuvole all’orzata. Un cielo al neon proprio come quello lì.
“Viste ‘ste cazzo di nuvole?” disse il ragazzo all’amica che lo precedeva di qualche passo al ritmo della gomma masticante che le esplodeva in bocca in piccoli palloncini color fucsia. Silvia non rispose. Forse non aveva sentito, oppure aveva fatto finta di niente come al solito, abituata alle stranezze del suo amico.
Meglio così, pensò, contento che Silvia non l’avesse beccato un’altra volta con la bolla al naso, come diceva lei. Almeno non avrebbe dovuto affrontare il suo sguardo freddo e tagliente come un bicchiere di Brancamenta calato giù di botto, come in quel vecchio spot. Brrrrrr…. Un brivido freddo gli corse lungo la schiena come una scossa elettrica.
“C’è un unico lastrone di nuvole spesso come un iceberg su questa cazzo di città” continuò il ragazzo pensando a voce alta. Lui le amava le nuvole, quelle paffute e vaporose come panna montata, coi bordi bianchi e tondi che sembravano ritagliate nella carta con le forbicine e poi incollate con la coccoina sulla linea bombata dell’orizzonte. Ne aveva ritagliate una dozzina nel legno di balsa, colorate nei toni digradanti dal verde all’azzurro e le aveva appese al soffitto della sua cameretta con il filo trasparente della lenza. Così sembravano sospese in aria come quelle vere.
No che non era colpa della nebbia se a Milano non c’erano nuvole come quelle. Che poi l’aveva vista sì e no un paio di volte lui la nebbia in città, in tutta la sua vita. Piuttosto era l’impossibilità di spaziare con lo sguardo, la mancanza di un belvedere o di una collinetta per ammirare il panorama che gli mancava in quel mare di cemento, pensò il ragazzo guardando la Madunina in cima al Duomo, sempre con la testa tra le nuvole pure lei, proprio come lui. Palazzi su palazzi, addossati gli uni agli altri come muraglioni. Muraglioni di cemento armato, muraglioni di  mattoni, muraglioni di vetro  e acciaio tirati a lucido. A furia di vivere in mezzo a tutti ‘sti muri è naturale diventare cecati, pensò, osservando gli occhialoni verdi a mascherina inforcati sul naso dell’amica. Milano.
Palazzi su palazzi. Allineati e coperti come un esercito di soldatini di piombo chiusi in uno scatolone dei traslochi, con l’indirizzo scritto sopra a pennarello nero. Soldati che non ricordano più per cosa combattono ma sanno solo di aver perso l’unica cosa per cui vale la pena vivere: la voglia di giocare. 
Silvia scelse un bello spiazzo d’erba sotto un tiglio, allargò la gonna a balze con una mezza  ruota e si sedette. Poi, come se stesse leggendo nei pensieri del ragazzo fece: “Dicono che guardare il cielo rilassa il cristallino.”
“Peccato che in questa città è impossibile rilassarsi” rispose il ragazzo.
“Lo sguardo s’incurva sotto i tunnel della metropolitana, sotto le gallerie dello shopping, sotto i portici dei palazzi finché perdi anche il piacere di osservare, di cogliere le sfumature e i piccoli particolari che rendono ‘sta terra meno pallosa. Allora si cerca di ricreare all’interno dei palazzi la luce e il colore che manca fuori. Ecco perché a Milano ci si abbuffa di moda, design e pubblicità” concluse.
Poi alzò gli occhi e seguì una nuvoletta incrociare veloce nell’azzurro sopra la sua testa.  La nuvola continuava a passeggiare in quel cielo a pecorelle e a lui sembrava di cadere all’indietro, nonostante fosse seduto a gambe incrociate e con le braccia ben piantate in terra. Indietro, indietro, sempre più veloce come in un film girato in rewind. Il ragazzo si sentiva risucchiato indietro nello spazio e nel tempo. Fu allora che si ricordò della lettera che aveva accartocciato distrattamente nella tasca posteriore dei blujeans il giorno prima e si decise ad aprirla.

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