lunedì 22 marzo 2010

Olga (II parte)

Prendeva le forbicine per le unghie dalla scatola d’argento di sua mamma, sceglieva il lato della pagina con la modella più carina e cominciava a ritagliare. Era di una precisione sconcertante, ai limiti della mania. Poteva passare una mattinata intera a ritagliare la sagoma di una sola modella. Non si lasciava sfuggire neanche un dettaglio. L’unghia di un dito, il bordo di un cappello, le frange  di una sciarpa, una ciocca di capelli per quanto sottile fosse, lui non la tagliava: la cesellava con le forbicine. Ricopriva tutto il letto con una miriade di triangolini e striscioline di carta patinata così sottili che a sua mamma non riusciva di toglierli neppure con lo scotch ed era costretta a passare l’aspirapolvere sul copriletto merlettato per delle ore. Una volta ritagliate le figure, il ragazzo dava un nome a ogni modella prendendo spunto dal colore degli occhi o dei capelli, da un dettaglio dell’abbigliamento, oppure inventandoli di sana pianta. Quella era la parte più bella. Dopo il meticoloso lavoro manuale in cui si costringeva ad una rigida disciplina, poteva finalmente  concedersi il lusso di volare libero sulle ali della fantasia. Angel era la sua preferita. Due occhi azzurri tagliati di sghimbescio, sopracciglia ad ala di gabbiano come Marilyn e quell’aria così snob. Sicuramente aveva il sangue blu.  L’aveva ritagliata in due versioni: quella da sera in abito lungo, tacchi a spillo e un lungo bocchino alla Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany; l’altra look sportivo-elegante con una folta chioma bionda fasciata in un foulard color cremisi, pantaloni a pinocchietto bianchi e una minuscola pochette in acciaio e swarosky stretta in pugno: un’arma impropria più che una borsetta. Proprio così. Perché dopo il ritaglio e il battesimo iniziava la battaglia. La selezione era rigida e spietata, come per una sfida olimpica con tanto di teste di serie, batterie, semifinali e finali che sancivano la supremazia della più bella e della più forte, finché non ne restava solo una. Spiegazzata, tagliuzzata, mutilata a volte, ma assoluta vincitrice. Era una guerra senza esclusione di colpi. Cominciava sempre con una rapida schermaglia a base di algide occhiate e acidi commenti in falsetto, imitando la voce della mamma con la cameriera, il portiere, o quando rimproverava il garzone del salumiere perché la mozzarella non aveva “la goccia”. Solo dopo aver studiato l’avversaria e individuato i suoi punti deboli, la battaglia vera e
propria aveva inizio. E Angel vinceva sempre. Così, una febbre dopo l’altra, il ragazzo allenò la sua voce a raggiungere altezze proibitive per un maschio. Finché scoprì il ruggito della tigre di Cremona. Ogni pomeriggio dopo pranzo, nei giorni in cui il papà medico non faceva le visite in casa, aspettava pazientemente che la mamma finisse il suo beauty sleep e uscisse, e si metteva le cuffie. Poi accendeva lo stereo, prendeva un disco di Mina e poggiava delicatamente la puntina sul primo solco del 33 giri. Ormai conosceva tutte le parole delle canzoni a memoria e le seguiva come in un karaoke, con la sua voce bianca da adolescente, senza perdere neppure un’ottava.
Alla radio andavano forti anche le canzoni americane e sulla via di scuola il ragazzo si sorprendeva a recuperare il ritardo accumulato a colazione -con la tesa penzoloni e gli occhi cisposi davanti alla tazza del caffellatte- saltellando al ritmo di questa o quella canzone dalla cadenza vagamente anglofona, le cui uniche parole comprensibili erano i nomi delle sue eroine di carta. Fu così che il ragazzo imparò contemporaneamente due cose che si sarebbero rivelate molto utili per il suo futuro: correre veloce e parlare inglese.
Furono proprio la sua vocina, i suoi boccoli biondi e i suoi modi gentili, gli stessi che solo fino a qualche anno prima gli avevano guadagnato le simpatie incondizionate di compagni e insegnanti, a tirargli un brutto tiro. Tutto ebbe inizio un lunedì dopo le vacanze estive. Il ragazzo aveva fatto una delle sue puntuali obiezioni, quando la morbida chioma bionda della prof di lettere ebbe un tremito e dopo aver compiuto un mezzo giro su se stessa sotto il fascio di luce che filtrava dalla finestra sul cortile, rivelò l’orrendo volto di un’erinni. Il ragazzo non poté credere alle sue orecchie quando la sentì dire acida davanti a tutta la classe:
“Innanzitutto non è questa la voce con cui dovrebbe esprimersi un ragazzo della tua età. E poi faresti meglio a non interrompere di continuo la lezione con le tue domande!”
Da quel giorno all’uscita di scuola tutti cominciarono a chiamarlo femminella.
Il ragazzo smise di cantare le canzoni di Mina e cominciò a usare tutto il fiato che aveva in corpo per sfuggire alle imboscate dei suoi compagni di scuola che, sentendosi legittimati dalla sparata della prof di lettere, si erano trasformati improvvisamente nei suoi più temibili persecutori.

Nessun commento:

Posta un commento