venerdì 7 maggio 2010

Droppie (II parte)

Droppie. Si era aggrappato a quella parola come un veterano all’unico bel ricordo della guerra. Col passare del tempo quella parola si era come svuotata, aveva perso ogni legame con il suo significato, trasformandosi in puro suono. Il suono di una goccia di pioggia che cade in un lago di montagna e si mescola con le sue acque tranquille e profonde.
D-r-o-p-p-i-e. Le dita sottili del ragazzo digitarono sulla tastiera le sette lettere della sua password e il computer si avviò col suono familiare dell’i-mac. Si era iscritto a Scienze della Comunicazione, indirizzo comunicazione d’impresa. Stava preparando la tesi sui bambini e la pubblicità. Era andato in biblioteca per completare una parte molto noiosa della tesi che comprendeva il codice di autodisciplina pubblicitaria, la legislazione per l’infanzia e tutte le sentenze emesse in materia di regolamentazione della comunicazione diretta a minori da quando era stato istituito il Gran Giurì. Trovava più intelligente prendere appunti direttamente sul portatile. Al suono dell’accensione del computer uno studente dall’altro lato della biblioteca sollevò la testa dal libro. Ma appena incrociò lo sguardo del ragazzo l’espressione di rimprovero sul suo volto si trasformò in un mezzo sorriso.


I due si rividero di nuovo per caso di lì a una settimana, ma alla terza volta sembrò a entrambi che non fosse una caso ritrovarsi lì alla stessa ora, sempre di martedì mattina. Era una bella giornata di sole. Quando il ragazzo uscì dalla biblioteca col suo portatile sottobraccio, l’altro lo aspettava seduto sui gradini d’ingresso con un bel paio di Rayban Aviator e la camicia mezza sbottonata con la scusa della tintarella.
“Piacere, Pietro”.
“Piacere, Andrea” disse il ragazzo stringendo la manona di Pietro. Andrea era il nome che usava sempre al primo incontro con uno sconosciuto, ma stavolta se ne vergognò un poco. Per non darlo a vedere impresse alla sua stretta un inusuale vigore, molto virile.

“A che facoltà sei?”
“Scienze della Comunicazione. Sto preparando la tesi. E tu?”
“Architettura. Due anni fuori corso…”
Pietro era un bel ragazzo. Viso pulito, accento del sud, capelli lisci, dentatura perfetta e un bel paio di Hogan di camoscio chiaro ai piedi. 44-45 misurò mentalmente il ragazzo e dopo una rapida occhiata al naso importante dedusse che doveva essere ben messo.
Qualcosa nei suoi gesti, nell’andatura dinoccolata e soprattutto nella cadenza lenta e rilassata con cui parlava davano a Pietro un che di molto nobile, per non dire snob. Lo chevalier d’oro al mignolo confermò i suoi sospetti.
“Ti va una granita?” chiese Pietro.
Una granita? Doveva essere napoletano o siciliano, pensò.
“una grattachecca” disse in tono provocatorio il ragazzo, calcando un po’ sull’accento romanesco e accompagnando la frase con uno dei suoi migliori sorrisetti malandrini.
“A Roma si dice grattachecca, che non lo sai?” continuò. Pietro sorrise di rimando, sardonico. S’erano capiti. Dopo la granita Pietro si offrì di accompagnarlo a casa in macchina. Il ragazzo accettò subito e fu piacevolmente sorpreso di trovare un bel setter seduto ad aspettarlo sul sedile di dietro della sua polverosa Opel station-wagon.  Si chiamava Eva. Era un setter bianco e nero di cinque o sei anni, anche lei con tanto di pedigree come il padrone. No che non gli dava fastidio l’odore nella macchina: lui amava i cani –disse- e fece subito amicizia con Eva offrendole una mano da leccare.

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